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Agnese Moro e l’impegno a comprendere “l’altro da sé”

«Non si ripara l’irreparabile, ma abbiamo attraversato insieme i nostri inferni, io e i miei amici difficili e improbabili, i miei amici preziosi». Sono le parole che Agnese Moro ha pronunciato il 10 dicembre 2023 quando a Genova, a Palazzo Ducale, ha ricevuto il Premio internazionale Primo Levi.

Gli amici “difficili, improbabili e preziosi” sono i brigatisti che il 16 marzo 1978 rapirono suo padre Aldo Moro, sterminandone la scorta. Il corpo senza vita del presidente della Dc venne ritrovato il successivo 9 maggio in via Caetani a Roma.

Agnese Moro è stata premiata per l’impegno nella “giustizia riparativa”. E il primo ad alzarsi in piedi, per una standing ovation, è stato Franco Bonisoli, ex Br.

«Non si ripara l’irreparabile» ha ribadito Agnese Moro. «Ma la giustizia riparativa si occupa dell’irreparabile». Lo aveva spiegato bene tempo fa a Bologna, in uno dei tanti incontri che tiene abitualmente sul tema, a cui aveva partecipato anche Adriana Faranda.

Riproponiamo qui la cronaca di quell’evento.

***

Sul sagrato di San Petronio accanto a piazza Maggiore a Bologna due donne raccontano esperienze di vita che più distanti non potrebbero essere. Ma che un percorso faticoso e doloroso è riuscito ad avvicinare.

Una è Agnese Moro, 67 anni, figlia dello statista della Dc rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978.

L’altra è Adriana Faranda, 69 anni, ex Brigatista rossa, componente del gruppo armato che pianificò il sequestro. Arrestata nel 1979 Faranda, che si era opposta all’uccisione di Moro, è uscita in libertà condizionale nel 1994.

Sedute allo stesso tavolo, con accanto l’arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, le due donne si ascoltano l’un l’altra, in un incontro straordinario (tenuto nell’ottobre 2019, ndr) organizzato nell’ambito del Festival Francescano. Agnese e Adriana, così si chiamano tra loro, si guardano, si versano l’acqua da bere, si sorridono anche. Non è la prima volta che si trovano insieme a raccontare la storia del lungo percorso che le ha portate a “comprendere l’altro da sé”.

Sono così terribilmente diverse, eppure spesso usano le stesse parole: dolore, rabbia, giustizia, comprensione. E perdono.

Io sono andata a Bologna soprattutto per vedere – sì proprio per guardare in faccia – Adriana Faranda. Avevo 18 anni nel 1978 e il rapimento di Moro, forse ancora più di tutti gli altri tremendi omicidi e ferimenti che segnarono quegli anni di piombo, mi aveva così colpito che ancora oggi è un pezzo del mio passato che non riesco a sciogliere. E’ strano come nella memoria le persone non invecchino. Avevo in mente il volto di quella bella ragazza bruna, per me il simbolo con altri di un Male così Male da provocare un fascino sinistro, e mi sono trovata di fronte una donna anziana, con lo sguardo acceso ma il volto come consumato da un’esistenza segnata per sempre.

Sono andata a Bologna per Adriana Faranda. Eppure chi davvero è riuscita a farmi capire delle cose è stata Agnese Moro.

Agnese Moro

Sul sagrato di San Petronio Agnese Moro scandisce i nomi di Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino (gli uomini della scorta uccisi in via Fani il 16 marzo 1978) e la piazza si zittisce. Siamo tanti di quella generazione che ha vissuto, e mai dimenticato, quei giorni tremendi.

«La storia la conoscete» dice lei. «Io voglio raccontare qui quello che mi è successo dopo. Quando gran parte degli esecutori materiali dell’assassinio di mio padre erano stati individuati, processati e condannati grazie a una giustizia che aveva “fischiato dei falli”, ricordando che in Italia non veniva accettato un modo di fare politica con le armi e gli omicidi. Era stato importante perché in quel momento non era scontato fosse così. Per quanto spesso si dica il contrario, la lotta armata era stata sostenuta da un larghissimo numero di persone di rilievo anche del mondo della cultura».

Agnese Moro parla e Adriana Faranda la guarda: «La giustizia aveva fatto il suo corso ma le mie ferite erano rimaste uguali. Si dice: il tempo guarisce tutto. Non è vero. Il tempo incancrenisce, “solidifica” le cose, non permette loro di evolversi. Io soffrivo la dittatura del passato, quel passato che si ripeteva ogni giorno. La mia vita era come agganciata a un elastico. Andavo avanti, facevo molte cose, ma non sapevo mai in quale momento quell’elastico mi avrebbe riportato indietro, se si sarebbe allungato per sempre o se un giorno si sarebbe spezzato. Ero come un insetto in una goccia d’ambra, da dove non avevo modo di uscire».

Esiste una catena del male.

«Una volta fatto, il male non rimane fermo. Lavora, lavora… va avanti e colpisce altre persone. Tu stai nella tua goccia d’ambra e finché sei là dentro quel male non potrà essere fermato».

Ad Agnese Moro era cresciuta dentro «l’idea di un male onnipotente, che se la ride di te e dei tuoi sforzi. Ma 31 anni dopo la morte di mio padre, la vigilia di Natale del 2009, ho cominciato a pensare di dire basta. Di scegliere la vita e decidere che quel male non doveva essere alimentato più».

Per mettere un punto a tutto questo occorre perdonare. «Il perdono non è un sentimento ma una decisione che devi prendere per fermare il male. Perdonare è una scelta per stare bene, per riprenderti la tua vita».

Un pensiero che trova radici nella proposta che le avanza padre Guido Bertagna, sacerdote gesuita. «Venne da me a chiedermi se volevo prendere parte a un gruppo di lavoro che intendeva far incontrare – affinché si parlassero – le vittime con gli autori del terrorismo. Subito ho detto di no perché temevo di offendere la mia famiglia, perdere amicizie come poi ho perso davvero. Ma al no è seguito un sì. Volevo che la mia vita fosse completa, viva. E non una vita un quarto viva e tre quarti morta ».

Così, grazie a padre Bertagna (che sull’esperienza ha scritto  “Il libro dell’incontro”, vedi in fondo all’articolo) «e a tante altre persone che hanno messo la loro intelligenza e il loro tempo al servizio del fatto che noi potessimo arrivare a parlarci senza “sbagliare strada”, ho avuto la possibilità di scoprire chi fosse “l’altro difficile”, e ritrovare voce dopo essere stata muta tanto tempo. Avevo in mente volti di mostri senza cuore, senza pietà, come lo erano davvero stati, invece mi sono trovata di fronte visi sui quali era trascorsa una vita. Guardandoli mi sono resa conto di quanto tempo fosse passato e che quel passato non poteva essere oggi».

Perché non si perde l’umanità «anche se l’hai combinata grossissima. Franco Bonisoli (brigatista che faceva parte del commando di via Fani) mi ha raccontato di aver utilizzato, quando era in carcere, permessi rari e preziosi per incontrare i professori del figlio. A significare che le persone non rimangono uguali, non è che se tu hai fatto cose orrende, per sempre dovrai essere una persona orrenda. Dentro queste persone c’era qualcosa di diverso da quello che io avevo pensato fino ad allora».

Guarda avanti a sé Adriana Faranda mentre Agnese Moro dice: «Fino a quel momento il dolore era solo il mio, e di chi come me aveva sofferto a causa loro. Ho scoperto invece che era anche di chi si è reso responsabile di ciò che non poteva più essere rimediato. Era dolore il mio, era dolore il loro. Un dolore che nessuno potrà mai toglierci, ma che si può portare insieme».

Parlare con gli ex brigatisti, ascoltarli, «è stato importante. Anche perché ho avuto la possibilità di porre loro una domanda a cui però non ho avuto risposta: “Come avete potuto fare questo?”».

Per Agnese Moro ora il passato è finalmente passato. «Resta atroce, ma non è più oggi-oggi-oggi. Sono finalmente serena. Non solo nei confronti degli ex brigatisti che ho incontrato. Ma anche nei confronti di quelle persone a cui nessuna giustizia ha mai fischiato il fallo ma che tutti noi sappiamo avere una responsabilità nella morte di mio padre».

E poi ci sono i ricordi «che ho avuto finalmente indietro. Prima, erano sempre macchiati dal dolore e dalla rabbia. C’è una foto dove io, bambina, sono in braccio a mio padre. Per anni l’ho guardata provando sentimenti feroci. Adesso guardo quella foto e dico: vedi com’era tenero il mio papà?».

Se per Agnese Moro la vita è stata per più di trent’anni un “dopo” il 16 marzo 1978 che ogni giorno tornava presente, per Adriana Faranda c’è anche un “prima” di cui – dice subito – non parlerà. Molto attenta alle parole, racconta invece il suo percorso di “giustizia riparativa”, come sempre lo chiamerà, lasciando trasparire molto di quello che è stato, ma non tutto. E anche se non lo dice, la strada verso la serenità per lei sembra essere ancora molto lunga.

Adriana Faranda

« Con famigliari di vittime delle nostre azioni avevo già avuto in passato incontri, anche se occasionali, limitati nel tempo, soprattutto solitari. Ma quando Guido Bertagna mi ha contattato ho reagito con perplessità». Adriana Faranda apre così un intervento durante il quale il tono della sua voce non cambierà mai. «Mi si chiedeva un impegno che avrebbe richiesto costanza, volontà e anche molta sofferenza perché avrebbe inevitabilmente riportato il passato al presente. Temevo avrebbe potuto fare ancora del male ai miei famigliari, che già avevano sofferto tanto. E a mia figlia, che aveva patito la mia assenza ed era stata discriminata proprio perché mia figlia».

Eppure a padre Bertagna Adriana Faranda dà una risposta positiva. «Sentivo che così avrei potuto chiudere il mio percorso di vita. Ho scelto quindi liberamente di intraprendere un cammino di giustizia riparativa».

Se lo ha fatto è anche perché «avevo scontato la mia pena ed ero tornata persona libera. Quando sei in carcere» precisa «ci sono scelte che possono essere usate strumentalmente. Ottenere il perdono di chi è stato colpito dalle tue azioni può essere importante – anche se non è vincolante – per la concessione di molti benefici di legge. Così il perdono si snatura e diventa uno strumento che non ha più nulla a che fare con la coscienza individuale ».

Il conto con la giustizia lei però lo aveva pagato. «Ho potuto quindi decidere di guardare a me stessa e di vedere, nel volto di chi avevo irrimediabilmente ferito, le conseguenze delle mie scelte».

Le scelte delle Brigate Rosse. «Eravamo partiti da un’idea di giustizia ma siamo arrivati a compiere la più grande ingiustizia, che è quella del ledere il diritto fondamentale di ogni essere umano: il diritto alla vita».

Un peso tremendo da portare. Mentre lo dice, il rigore e l’attenzione a non pronunciare una parola di più in lei un po’ si attenuano. «Un peso di cui non ci si può liberare, perché certe cose sono irrimediabili. Non possono essere più sanate».

E allora cos’è che l’ha spinta a incontrare Agnese Moro? «Far sì che potesse rimproverarmi: la riparazione era per me anche questo. Poter dare la possibilità di urlarmi in viso tutta la sofferenza, il dolore, l’odio, il disprezzo. Era giusto così. Perché una persona che è stata ferita atrocemente ha il diritto di dirti quello che ha dentro il cuore. Io non avevo nessun desiderio di difendermi».

Tra famigliari delle vittime ed ex terroristi ci sono stati giorni e giorni di confronto. «Non c’è stata memoria condivisa, sarebbe stato impossibile, pura follia anche solo pensarlo. Ma siamo riusciti a mettere in comune, questo sì, quelle che erano le memorie di ciascuno. E’ stato difficile, perché qualsiasi essere umano è tentato di affermare la sua memoria, la sua storia, la sua verità, il suo pensiero, il suo percorso, le sue ragioni. Nel nostro dialogo, invece, c’è stata semplicemente una narrazione di quello che avevamo vissuto. Mentre l’altro – con la mente, l’empatia, il cuore – ascoltava, anche se non sempre capiva quel “qualcosa di diverso”».

In quel confronto «abbiamo tentato – senza sempre riuscirci, come ha ricordato Agnese – di rispondere a tutte le domande. Domande dure: ci sono stati momenti carichi di emozione, diffidenza, rabbia. Abbiamo vissuto di tutto, ma quello che ha continuato a tenerci insieme è stato il desiderio di riuscire a superare gli ostacoli. Perché la potenza del dialogo, della parola, del rispetto è incredibile».

Ed è solo a questo punto, quasi al termine del suo intervento, che Adriana Faranda accenna “alla vita di prima”.

Parla «delle scelte pesanti che hanno colpito anche noi, perché chi fa violenza fa violenza anche su se stesso». Non pronuncia mai il termine serenità. Indica nella giustizia riparativa ciò che le ha permesso di fare un passo fondamentale: «Il passaggio dalla colpa alla responsabilità. Quando ho aderito alle Brigate Rosse» spiega «non ho seguito l’etica della responsabilità ma quella della convinzione. Ritenevo legittimi tutti i mezzi che avrebbero permesso di raggiungere fini che consideravo giusti.

L’etica della responsabilità mi ha insegnato invece a considerare le conseguenze di ciò che fai sugli altri. Su questo ho cominciato a riflettere a un certo punto della mia vita, tant’è che mi sono piano piano fermata e ho tratto le conseguenze. E l’essere passata dalla colpa alla responsabilità è una sorta di miracolo» dice.

Mentre Agnese Moro le dà una carezza su una spalla.

Il tempo è passato davvero. Il problema è quanto tempo dovrà ancora passare perché qualcuno si decida a dire la verità.

***

L’esperienza di Adriana Faranda e Agnese Moro, così come di altri terroristi e altri familiari di vittime degli anni di piombo che si sono trovati per cercare insieme una ricomposizione possibile, è raccontata ne Il libro dell’incontro (il Saggiatore).

“Muovendo dalla constatazione che né i processi né i dibattiti mediatici all’insegna della spettacolarizzazione del conflitto sono riusciti a sanare la ferita,  un gruppo numeroso di vittime, familiari di vittime e responsabili della lotta armata ha iniziato a incontrarsi, a scadenze regolari. Per cercare – con l’aiuto del padre gesuita Guido Bertagna, del criminologo Adolfo Ceretti e della giurista Claudia Mazzucato – una via altra alla ricomposizione di quella frattura che non smette di dolere. Una via che, ispirandosi all’esempio del Sud Africa post-apartheid, fa propria la lezione della giustizia riparativa, nella certezza che il fare giustizia non possa, e non debba, risolversi solamente nell’applicazione di una pena”.

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