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Allonsanfàn
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Un calcio al Covid, ma quante nuvole sulla serie A a stadi chiusi

Mercoledì sera, con la finale della Coppa Italia tra Juventus e Napoli nel deserto dell’Olimpico di Roma, l’antipasto sarà servito. Poi nel week end successivo arriverà la pietanza più attesa: il campionato.

Dunque si riparte, dopo confronti, liti, incomprensioni, fughe in avanti e precipitose retromarce, figuracce a iosa. Fortunatamente ora sta prevalendo il buon senso: non scatterà infatti la quarantena per l’intera squadra nel caso uno dei giocatori o membri dello staff risulti positivo. È la modifica chiesta dalla Federcalcio e accolta dal Comitato tecnico scientifico: in caso di positività, ad andare in isolamento sarà solo il giocatore positivo, mentre il resto della squadra sarà sottoposto a tampone per verificare se ci sono altri contagi. La modifica delle modalità della quarantena consentirà alla squadra di non fermarsi e al campionato di proseguire.

Rimosso quindi quello che era senza dubbio l’ostacolo maggiore, le possibilità che la serie A si concluda regolaramente alla trentottesima giornata, senza il ricorso al piano B (play off) o al piano C (cristallizzazione della classifica e algoritmo per definire chi va in Champions, chi in Europa League e chi retrocede, senza però assegnare lo scudetto) crescono in misura esponenziale. Ma tocchiamo ferro.

Certo è che il calcio italiano non ha dato in questi mesi una sfolgorante immagine di sé. Ma del resto, possiamo ben dire che neppure il Paese ha fatto di meglio. Anziché comprendere che, una volta tanto, sarebbe stato opportuno pensare al bene comune, anziché ai mille interessi particolari, i nostri beneamati dirigenti si sono comportati come i famosi polli di Renzo nei Promessi Sposi: si sono azzuffati mentre stavano per tirargli il collo.

Ognuno ha continuato a pensare al proprio orticello, come avviene regolarmente da anni.

Sono gli stessi dirigenti che sono stati inondati negli ultimi vent’anni da miliardi di euro provenienti dai diritti televisivi, ma anziché pensare a costruire gli stadi di proprietà (in questo siamo gli ultimi al mondo, non solo in Europa), hanno arricchito giocatori, procuratori, direttori sportivi.

E non andiamo oltre per carità di patria.

Il Covid 19 ha offerto un’occasione forse irripetibile per riformare dalle fondamenta il nostro calcio: c’è bisogno di far pulizia, di smetterla di truccare i bilanci con plusvalenze fittizie, di ridurre gli organici dei campionati, di diminuire il monte ingaggi: l’Italia non può permettersi 100 squadre professionistiche, la stragrande maggioranza delle quali sono in pesante passivo. Diciamo che 60 bastano e avanzano, con la serie A a 18 squadre. Era una riforma necessaria, ma anziché pensarci per tempo, i nostri dirigenti si affidano allo sfoltimento (cioè alla selezione naturale) indotto dal Covid 19.

E poi va rivisto il sistema degli introiti dai diritti TV, che incidono in maniera troppo preponderante sui bilanci delle società di serie A, legate a doppio filo alle TV a pagamento. La prossima asta che assegnerà i diritti del triennio 2021-2024 sarà sicuramente al ribasso, perché Sky non ha nessuna intenzione di assicurare le cifre garantite finora. Supponiamo che l’offerta venga dimezzata dal miliardo di euro attuale: cosa succederà alle società vincolate a contratti pluriennali molto onerosi coi calciatori?

Qui e sopra, il Meazza di San Siro senza pubblico

Il Covid 19 ha messo le dita sulla piaga: il campionato riprende anche perché altrimenti sarebbero fallite forse metà delle società di serie A, molte delle quali hanno già scontato in banca gli introiti della stagione in corso. Peccato che Sky non abbia ancora versato l’ultima rata e forse si finirà in tribunale.

Il modello dev’essere la Premier League, che con una gestione oculata è diventata il campionato più interessante, più appassionante e più visto al mondo. In Inghilterra la forbice dei diritti TV tra la prima in classifica e l’ultima è molto più stretta di quella esistente in Italia, dove tra la Juventus e il fanalino di coda ci sono 80 milioni di differenza.

La Lega di serie A aveva proposto che, in caso di blocco del campionato, venissero abolite le retrocessioni, trovando l’opposizione compatta di tutte le altre componenti del Consiglio della Federcalcio: 18 a 3 l’impietoso esito dell’ultima votazione con i tre rappresentanti della Lega di serie A umiliati e messi all’angolo dai rappresentanti della Lega di B, della Lega di C, della Lega Dilettanti, degli arbitri, degli allenatori e dei giocatori.

Ora, al di là delle bizzarrie di una Lega spaccata tra i disegni di Lotito e quelli di Cellino, passando per il presidente del Torino Urbano Cairo, in leggero conflitto di interessi in quanto editore di RCS, cioè Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport, è evidente che qualcosa da rivedere c’è.

Non è possibile che la Lega di serie A, che produce da sola il 90% del fatturato del calcio italiano, venga messa all’angolo come un alunno capriccioso. Dopo l’ultima umiliazione si va forse verso un’uscita della Confindustria del pallone dalla Federcalcio? Al momento non appare probabile, ma non è neppure da escludere.

Ci sarebbe anche l’aspetto tecnico, con il duello per lo scudetto che sembra riguardare soltanto Juventus e Lazio, divise da un solo punto, con le incognite derivanti dai tre mesi di stop, con la certezza di un aumento degli infortuni muscolari. Perché sino a fine luglio si giocherà ogni tre giorni con temperature inconsuete, ma anche con cinque sostituzioni, cioè mezza squadra, che sembrano favorire i bianconeri di Sarri, dall’alto di una rosa quantitativamente e qualitativamente superiore a tutti.

Ma dopo una sosta così lunga non c’è nulla di scontato e può accadere davvero di tutto, dato che ci troviamo di fronte a un territorio del tutto inesplorato.

Insomma, il campionato riparte tra molti dubbi e poche certezze. E le vecchie volpi che governano il nostro calcio rischiano, se non si danno una regolata, di finire nella pellicceria del primo Sapadafora o del primo Malagò che passa. Un sincero in bocca al lupo ci sembra davvero il minimo.

P. S. Venerdì si è consumato l’ennesimo pasticcio, a dimostrazione dell’impreparazione del ministro Spadafora: il suo tentativo di mandare in onda in chiaro sul Canale 8 del Digitale Terrestre (di proprietà di Sky) si è complicato dopo la diffida inviata da Mediaset. Possibile che un ministro di questo Bel Paese non conosca l’esistenza della legge Melandri e non sappia che per aggirarla serve un decreto governativo? Oppure lo sapeva e ha sperato che qualcuno facesse finta di niente?

Sky ha i diritti per il calcio criptato (e li ha pagati pure piuttosto cari): se si cambiano le carte in tavola, bisogna avere il benestare di tutti gli operatori del settore televisivo, visto che, almeno per il momento, non siamo nel Far West.

Ma c’è un’altra domanda: per quale ragione bisogna assolutamente far vedere il calcio in chiaro, non si può sopravvivere come è avvenuto finora?

Forse la risposta a questa domanda è così scontata che il ministro Spadafora preferisce cercare di passare alla storia con un provvedimento di cui non si avverte la necessità. Sempre che ce ne sia il tempo.

Credit: Adoform

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