Si può leggere la solita vecchia storia del ragazzo inglese, alto e magro che, dopo tre album di certificato insuccesso, morì disperato a casa dei suoi, a un passo tra l’altro dal paese che diede i natali a Shakespeare; si può, dicevamo, soppesare dubbiosi la volontarietà o meno dell’atto di assumere quella sera di novembre del 1974 troppa amitriptilina – un comune antidepressivo – per morire o solo per dormire e sognare, forse. Si può, ed è stato fin qui il lavoro puntiglioso di biografi e documentaristi.
Ma fa bene Ennio Speranza a offrirci in Nick Drake e Pink Moon. Una disgregazione (Galaad edizioni) qualcosa di diverso dalla favola triste di Nick Drake; il musicologo romano, classe 1966, riduce al minimo sindacale la vicenda umana molto sfigata del songwriter – oggi poi c’è Wikipedia (versione inglese) – e concentra gli sforzi del suo breve e colto saggio nella decrittazione della più radicale produzione drakiana, l’enigma Pink Moon.
26 minuti e 30 di musica suonata dal solo Nick Drake, pezzi brevi o brevissimi, da 3 minuti e 23 a uno e 18, a uno, quasi schegge, frammenti, uniti da quel binomio voce chitarra così particolare – essenziale nella poetica di Drake – che se ne può isolare la traccia sul mixer anche nei due album precedenti, azzerare il resto e poi forse è lo stesso – a patto, invece, e chissà perché (ma Speranza lo spiega) di non togliere alla canzone Pink Moon la piccola cascata di note di piano sovraincise dallo stesso Drake nelle session notturne dell’ottobre 1971 sotto l’occhio del bonario e paterno tecnico del suono John Wood.
Pink Moon contiene 26 minuti e 30 di musica suonata dal solo Drake. Sono pezzi brevi o brevissimi, da 3 minuti e 23 a uno e 18, a uno, quasi frammenti di un lavoro in apparenza non finito…
È utile allora il lavoro di Speranza, che prende l’album di petto e lo analizza brano per brano – “brano” è il termine giusto, specifica – e accordo per accordo, partendo dalla fama di frammentarietà dell’oscuro capolavoro, non finito secondo il discografico Joe Boyd e il musicista Robert Kirby, ma compiuto per Drake che l’ha infatti dato alle stampe.
Enigma Pink Moon ho scritto perché questo è Pink Moon. Un album che da decenni incanta e intimidisce il mondo e fans di Drake di ogni latitudine – io stesso l’ho ascoltato centinaia e centinaia di volte, “assumendolo” e amandolo senza forse capirlo davvero. Il mondo dicevo: Pink Moon è persino finito con il suo intatto mistero nei jingle pubblicitari.
Pink Moon è un’orgia di dicotomie, musicali e testuali, la prima fra tutte essendo che è un prodotto in qualche modo mainstream – Drake del resto è stato “riconosciuto” da Boyd che ai tempi della Witchseason era un produttore influente – e non come si potrebbe credere un avanguardistico “attentato iconoclastico all’invincibilità dell’artista” (Patrick Humpreys).
Mutatis mutandis, afferma Speranza, Pink Moon è simile a una sinfonia che parte dal buio e arriva alla luce; oppure a un poema sinfonico proto novecentesco che dalla morte arriva alla trasfigurazione. Anche se l’ultima canzone, non a caso la preferita dai genitori di Drake in un disco per loro per certi versi imbarazzante, suona forse come la meno sincera…
Ma leggiamo. Pink Moon affronta il presagio di una futura catastrofe nel track omonimo – “La luna rosa vi prenderà tutti” -, si volge in Place To Be a guardare a ritroso le illusioni del passato, affronta il moncone di strada di Road dove ricompare significativamente la dualità Luna-Sole (e l’io di Drake appartiene alle suggestioni della Luna) auspicando un viaggio alla scoperta di sé fino ad arrivare alla prima vera canzone d’amore del disco, Which Will, o più propriamente alla prima canzone “sull’ansia d’amore” – la love song vera è Free Ride anche se biograficamente infelice. Drake sfida poi la nostra comprensione con quella specie di monolite che è Horn o con una citazione blues da Robert Johnson manifesta in Know, affascinante quanto più l’aristocratico ragazzo nato in Birmania ha vissuto lontano dal mitico Delta…
Speranza racconta l’album non staccando mai le parole dalla musica e viceversa. Per esempio, quando nota che tutto il disco è volontariamente concepito come un “abbozzo” e che “il non finito” è la forma di perfezione scelta da Drake, forse l’unica che gli era possibile, scrive che Pink Moon è una “canzone interrotta” dove la nota più bassa, grave, di un ritornello che non ritorna – poiché eseguito una volta sola! – è quasi imprendibile da Drake. Quel “pink moon” estremo, dove la voce si disgrega, e che è un segno di dramma (non ci sarebbe voluto nulla per alzare la tonalità).
Spiega che nella “canzone in bilico” Place To Be – un “posto per sé” in realtà mai trovato da Drake – il primo verso cita apertamente Help! dei Beatles ma in modo quasi timido senza la rabbia proletaria di un Lennon. Una scelta che porta egualmente ma quasi in sordina Pink Moon nell’aria psichedelica del tempo, segnatamente alla “nostalgia per la visione innocente del bambino” (Ian MacDonald).
L’impressione è che il tono pacato che pervade l’album ci ricordi che oggi – come pure nello ieri di Drake – il poeta è divenuto una sorta di mago debole poiché la nostra società ha dimenticato “il dominio sciamanico della comprensione poetica della realtà” (ancora MacDonald) e che ciò si rispecchia nella musica tanto spoglia quanto sorprendente del ragazzo inglese. Un mago che la verità l’ha detta ancora, a modo suo. A noi e a voi, il libro prezioso di Speranza per scoprire quale e come.
IL LIBRO Ennio Speranza, Nick Drake e Pink Moon. Una disgregazione (Galaad edizioni)
Nella foto, la copertina di Pink Moon firmata dall’artista surrealista Michael Trevithick