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Allonsanfàn
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Leggendo L’assistente. Walser, Sebald e il Paese del Lapis

Per molti anni, ho creduto che Robert Walser avesse scritto soltanto La passeggiata (1917, Adelphi 1976), a cui avevo accostato in uno scaffale l’intonso Passeggiate con Robert Walser (Adelphi 1981) di Carl Seelig, l’amico mecenate che curò l’opera di Walser e ne evitò l’oblio – dal 1936 al 1956, per vent’anni lo scrittore è ricoverato nell’istituto psichiatrico di Herisau, nell’Appenzell, dove a quanto si sa cessa di scrivere.

La passeggiata, e spiego il mio errore, incarna alla perfezione l’idea dei “libri unici” su cui Adelphi ha costruito, per via di Bobi Bazlen e Roberto Calasso, un catalogo e una piccola leggenda editoriale.

Vero niente. Ignoravo che persino durante il primo ricovero per schizofrenia, questa la diagnosi, a Waldau nel Bernese (1929-1933), Walser avesse scritto, impegnandosi negli oggi celebri microgrammi, cioè fogli su fogli scritti a matita in una sempre più minuscola e incomprensibile grafia – e confuso tra questi c’è Il brigante (Die Rauber, Adelphi, 2008), il romanzo che svela letterariamente le ragioni di un distacco.

Comunque: spesso in questi anni, mi sono rimesso sulle tracce delle altre prose di Walser per cercare di capire qualcosa di una vita solitaria segnata se non dalla follia dall’esclusione dal mondo: Walser, nato a Bienne nel cantone di Berna nel 1878, è infatti attivo come scrittore, seppure con scarsa fortuna, per un trentennio, dal 1898 al 1929, a Zurigo, Berlino, Bienne e infine, prima dei ricoveri, ancora a Berna.

Apro oggi il “nuovo” romanzo, L’assistente, e conto che sono ormai 15 i libri di Walser contando solo quelli pubblicati da Adelphi. Ritradotto da Cesare De Marchi, L’assistente era già apparso nel 1961 per Einaudi nella storica versione di Ervino Pocar. Il primo Adelphi edito scopro essere invece Jacob von Gunten (1970) – L’assistente, Jacob von Gunten e I Fratelli Tanner sono i tre grandi romanzi del periodo berlinese (1905-1912).

Il nome di Walser mi era appena tornato sott’occhio mentre leggiucchiavo Campo Santo di W.G. Sebald, che ripesca il tributo del tedesco allo svizzero in Soggiorno in una casa di campagna (Adelphi 2008), serie di saggi che affrontano, cito dall’aletta, “le derive compulsive dello scrivere”.

Sebald paga il debito con Walser cercando di “fissarlo” in qualche modo sulla sua, di pagina, poiché lo scrittore dei microgrammi, appartenenti al cosiddetto Paese del Lapis – Bleistiftgebiet, dal titolo sotto cui sono stati raccolti e decifrati – è riuscito in qualche modo sempre sfuggente al suo eminente lettore. Walser nell’opera a matita comunica precarietà attraverso centinaia di situazioni e di personaggi i quali per un tempo infimo appaiono per poi svanire – in una parata di insignificanza a fronte della grandiosità da grancassa dell’epoca in cui lo scrittore vive – quasi fossero una metafora dell’esistenza annichilita del loro creatore. Per Sebald, Walser è il più solitario degli uomini e, tra i solitari, il più sradicato e il meno legato a beni materiali: non ha potuto dire suo alcun luogo né mai vantato possessi terreni – muore essendo padrone al più di due abiti.

Quasi per dare corpo a un fantasma, Sebald inserisce all’inizio del saggio sette ritratti fotografici di Walser. Sono sorprendenti per la loro capacità di rappresentare negli anni l’evoluzione/involuzione/sparizione dello scrittore svizzero: si passa dal ragazzo dal viso intento della prima foto all’artista berlinese, dal “brigante” oscuro e inattendibile a un uomo con ogni evidenza disperato, fino a fermarsi sul commovente viso del vecchio – arreso, in pace, vittoriosamente evaso da tutto e fedele solo a se stesso? – di Herisau. Ecco Robert Walser, inesistente e dimenticabile quasi per sua volontà, parente stretto di Bartleby in vita e nelle opere (di Bartleby e Walser abbiamo già scritto qui). Seguirà la foto, questa forse indimenticabile, di un cadavere riverso nel bianco abbagliante della neve.

Walser attorno al 1900

Il Walser visto da Carl Seelig è assai meno poetico di quello di Sebald, non foss’altro che l’amico e biografo è frenato dal desiderio di riportare con fedeltà diaristica le sue escursioni con il degente di Herisau. Le Passeggiate – lunghe e stremanti per un uomo non più giovane o così si direbbe dal chilometraggio – sono un curioso elenco di località e paesaggi, di locande e piatti gustati, tra cui affiorano i sicuri giudizi letterari dello scrittore e il ricordo dello scacco da lui subìto nel campo delle lettere. Walser lo attribuisce alla necessità, costantemente messa in pericolo dall’indigenza, di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura – in caso contrario, si producono solo “arabeschi” – nonché a una mancanza di “istinto sociale”, per offrire al pubblico il necessario spettacolo, e di sensibilità borghese – ai borghesi Walser ispirava la diffidenza di un uomo che può finire alcolizzato o vagabondo, lo consideravano, dice, un “pendaglio da forca” (mi riferisco alla passeggiata  del 28 gennaio 1943). Significativo, anche perché ci riporta ai personaggi dei libri, è il resoconto dei fallimenti sul lavoro, quale la breve avventura negli insopportabili panni di cameriere. Leggendo Seelig, la disperazione di Walser – che a Herisau pare a suo agio come, azzarda lui, Hölderlin nella sua torre (!) – si rivela essere legata per così dire al sociale e le si contrappone lungo il cammino l’ammirazione estatica suggerita a Walser dalla natura – gli basta un cielo di nuvole – o da una donna che lo serve in un locale.

Non posso affermare di avere amato e dimenticato La passeggiata o il ritrovato Jacob von Gunten: quando li riapro adesso, trovo le orecchie alle pagine e le sottolineature che, progredendo il testo, vanno progressivamente a rarefarsi, fino a scomparire ben prima della fine. Posso forse ricostruire che cosa mi aveva deluso ne La passeggiata? Semplicemente il fatto che Walser comunicava un’estraneità aliena verso il mondo borghese e non un tentativo di contrapposizione o sovversione più o meno attiva – io leggevo negli anni Settanta, oggi potrei rovesciare la valutazione essendo cambiata la sensibilità, mia e quella dei tempi.

Jacob von Gunten, invece, mi richiama alla mente tutti i nomi e i cognomi da Bildungsroman raccattati per caso da ragazzo negli studi o imparati al cineforum – penso al Wilhelm Meister di Goethe rivisto da Wenders-Handke in Falso Movimento, al Törless di Musil nella versione di Volker Schlöndorff ma anche a Kafka rifatto da Orson Welles. Jacob von Gunten aveva, per me allora, almeno il vantaggio di descrivere un universo concentrazionario – l’istituto Benjamenta – come quello in cui credevo io stesso di vivere e di fornire a fine volume una nota di Calasso. Non ho visto invece il film che ne è stato tratto nel 1995, Institute Benjamenta, di Stephen e Timothy Quay.

Adolph Wölfli, Clinica psichiatrica di Waldau, 1921

Ma basta. Apro oggi il “nuovo” romanzo, L’assistente, e incontro il suo incapace e apparentemente serafico impiegato, ispirato ai ricordi di un lavoro da contabile svolto a Wädenswil dall’estate del 1903 al gennaio del 1904. Subito si pensa a Kafka (di cui è riprodotto un disegno in copertina) oltre che a Melville – mentre vediamo Joseph al lavoro dal signor Tobler per valorizzarne i brevetti in uno stato di capitalismo famigliare eppure ancora più disumano. Subito Joseph, per la sua garbata ma ferma estraneità al mondo degli affari ricorda (e lo rammenta il tono del racconto) l’immediato e placido diniego del protagonista della Passeggiata riguardo una sovvenzione pecuniaria a suo favore… Questa volta, leggo poche pagine per volta, ma attentamente, con la sfida di capirne qualcosa e di riparlarne su À.

Nella foto in alto, lo scrittore Robert Walser nel periodo berlinese

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