Scorrendo la lista dei candidati ai premi maggiori, vedo sempre abbondantemente schierati i fini memoiristi (da memoir), pur nel ritorno di romanzi più classici o “contemporanei” in stile serie tv. Lo ha detto bene qualche tempo fa Melania G. Mazzucco: “Abbondano le narrazioni oblique e non finzionali, composite, di taglio saggistico, memoriale o confessionale…”.
Forse per questo mi è venuta in mente una collana di tanti anni fa che voleva “memorieggiare” facendo però a meno della letteratura – come quando nel cocktail Martini si sciacqua il bicchiere con il Martini, lo si butta e si mette solo il gin.
L’onore e la sfiga di essere Franchi Narratori
Una volta, per le storie molto autobiografiche, per i tranches de vie con supposto interesse sociale o di particolare bizzarria – ma sempre rilevante da un punto di vista per così dire antropologico – Feltrinelli ebbe la geniale idea di varare una sorta di collana-recinto, i Franchi Narratori.
Dal 1970 al 1983, uscirono 36 testi, il più famoso Padre Padrone del pastore sardo Gavino Ledda che vi raccontò la sua storia di analfabetismo e di orribile patriarcato contadino. Divenne pure un film dei fratelli Taviani. Al secondo posto (o forse al primo?) Alice: i giorni della droga.
Non è un caso quindi che io ricordi solo questi due, e Ore perse, che uscì nel 1978, un testo sulla noia e la stupidità di vivere a 16 anni – avevo a quei tempi poco più di quell’età – firmato da un’adolescente Caterina Saviane, figlia del celebre giornalista Sergio Saviane, quello che sfotteva sull’Espresso, dopo aver inventato il termine, i mezzibusti tv.
Ho dimenticato e forse non ho mai preso in mano nessuno degli altri volumetti che avevano cover in bianco e nero “sporco” del tipo foto da quotidiano della notte, definite da sottili titoli rossi. Scorro la lista dei 36: mi balzano agli occhi in sequenza storie di omosessuali, preti operai, pazzi e suicidi, contadini del sud finiti in fabbrica al nord, ergastolani, infermieri, genitori di bambini subnormali (sic), eccetera eccetera.
Non ho quasi più la sensibilità di capire che non si tratta di scandalistici e morbosi casi umani ma, per dirla come allora, di storie di vite ed esperienze che sono “spaccati” di una realtà storico-sociale in rapida evoluzione; i 36 sono infatti testi che si vogliono esemplari.
C’è notevole differenza con un caso umano proposto, per esempio, dall’attuale tv del dolore (e del crimine), che solletica il nostro serafico e annoiato guardonismo. Ai tempi dei Franchi Narratori esiste invece la convinzione-la supponenza-la speranza, almeno, che la lettura delle realtà più scabrose ci migliori, non già tramite l’arte, troppo facile!, ma mediante la forza stessa del fatto documentato (che cosa diceva in fondo Engels di Balzac?).
Il tasso letterario qui non solo è irrilevante, ma pure d’ostacolo: e non per nulla i testi – ne ho sfogliati alcuni, al volo, a una bancarella di libri usati – esibiscono un italiano piatto, grigio, persino burocratico; sono tempi in cui la letteratura può essere sinonimo di contraffazione formale e distogliere dalla forza del nudo racconto di un’esperienza.
Il Balestrini touch
Significativo notare che è Nanni Balestrini a occuparsi dei primi volumi della collana. Balestrini, noto reduce del Gruppo 63, più di altri usa nei suoi scritti materiali extraletterari, autentici ready made raccolti metaforicamente per strada: stralci di articoli di giornale, ciclostilati sindacali, documenti giuridici, pagine di diari privati, e spesso li mescola in automatico. L’operazione, meccanica e volutamente disturbante – spesso rende l’avanguardista Balestrini illeggibile – sostiene l’impossibilità di dire una realtà oggettiva: sempre e comunque, e figuriamoci negli anni della borghesia del boom e dell’autunno caldo delle rivendicazioni operaie (cfr. Vogliamo tutto e poi La violenza illustrata). Proprio con i Franchi Narratori l’oggettività impossibile viene rimessa, con una mossa del cavallo, al centro della partita.
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Tornando all’inizio, mi torna in mente il recinto virtuoso e un po’ inquietante dei Franchi Narratori, leggendo (in gran ritardo) la storia di un adolescente gay che cresce nella malavitosa provincia di Milano e a trent’anni si scopre sieropositivo. Ho pensato (con il dovuto orrore) che negli anni Settanta ideologici e ignari di memoir il povero sarebbe forse finito prigioniero di quella collana innovatrice e – come credo di poter dire nonostante abbia voluto a mia volta mantenermi nel campo di un’improbabile oggettività – vagamente sinistra, non soltanto nel senso della sua indubbia collocazione politica.
Nella foto di apertura, una scena del film Padre padrone dei fratelli Taviani