E così, quasi d’improvviso, ci troviamo in mezzo a estenuanti e pazienti inseguimenti di rangers per lande desolate, ghiacciate d’inverno, e alle rapide scorrerie di indiani che attraversano il Texas e possono spingersi fino alla Grande Acqua dell’oceano. E subito c’imbattiamo nei miseri bianchi che cercano una terra per sé e nei fieri Comanche, la cui violenza è alimentata dai fantasmi tribali di un augusto passato.
Un giorno, quando avverte che i tempi sono maturi, Buffalo Hump, il vecchio capo indiano dalla gran gobba, protetto dallo scudo forgiato con una testa di bisonte, lancia il grande attacco ai coloni e alle città texane di Austin e San Antonio. Buffalo Hump sente di avere dalla sua parte, nel cielo di notte, l’amica Comanche Moon che battezza i più riusciti combattimenti…
Niente fucili, solo armi della tradizione, lance e frecce, per un assalto silenzioso e spietato e per un tutt’altro che simbolico massacro. Buffalo Hump ha rifiutato le suggestioni di altri capi, che vorrebbero darsi forse pacificamente alla coltivazione di mais, e contrasta la deriva insensata dei giovani, sebbene lui stesso sia dedito ai furti di cavalli – il motore dell’economia comanche -, allo stupro e alla tortura dei bianchi…
Intanto i Texas Rangers di Austin, guidati dalla coppia di amici formata da Augustus McRae e Woodrow Call – appena promossi e in continuo battibecco ma entrambi tra l’altro col cuore spezzato per amore – sono partiti in missione per riportare a casa il loro vecchio capitano, Inish Scull.
Come impazzito (o rinsavito), Scull sta cercando a piedi il suo leggendario cavallo, simile per dimensioni a un bufalo, rubato da un Comanche particolarmente spericolato. Scull che durante la sua marcia riflette su Senofonte e sulle epiche battaglie della storia – sputa tabacco controvento ma ha studiato a Harvard -, forse vuole spingersi fino a meridione e sfidare il misterioso bandito Black Vaquero e la sua fedele e ottusa banda di impalatori… Nella sua opera mondo Larry McMurtry non poteva non inglobare, oltre all’immaginario di bianchi e indiani, anche gli antichi demoni della cultura messicana.
Ma ecco: Luna Comanche sono 720 pagine quasi tutte al galoppo o in marcia, e in progressione temporale, senza fare avanti e indietro, servite da una scorrevole sintassi che non si disperde in subordinate e viene illuminata dalla chiarezza quasi semplificata (o solo deliziosamente semplice?) del racconto.
È la formula western di Larry McMurtry e Luna Comanche è l’ultimo tassello di una quadrilogia fortunata e quasi sterminata, quella di Lonesome Dove. A una disattenta occhiata pare più vicina all’opera degli scrittori popolari di storie di cowboys, quelli dei romanzetti americani da treno, che alle pagine di un altro maestro texano, quel Cormac McCarthy dalle frasi scarne come versetti di Bibbia e dai piani sequenza in stream. Ma poi no, e che importa? Ha detto McMurtry di aver realizzato che ci va coerenza tra la prosa e il paesaggio. E che non ha senso impiegare la lingua barocca di Faulkner se la storia si svolge sulle pianure spoglie del Texas occidentale.
Larry McMurtry vince la sua scommessa sulla lunghezza, grazia alla lunghezza della sua chanson de geste. È l’accumulo e il reiterarsi degli episodi della saga che, senza rischiare di annegarci nella retorica e occultando i capitoli palesemente meno riusciti – qui la leggenda del Black Vaquero che rimanda semmai a un altro svelto texano, Joe R. Lansdale –, crea l’epos disinvolto dell’avventura tra un canyon e l’altro, tra un saloon e un bordello, in un’aspra e forse derisoria concezione dell’esistenza come interminabile e in fondo vano inseguimento – nei romanzi di McMurtry si inseguono tutti o tutti traslocano mandrie e poi, infine, che cosa fanno? Tirano le briglie, voltano il cavallo e tornano indietro, a casa, se c’è una casa.

È la lunghezza del testo e l’infinita ripetizione dei gesti e delle azioni intraprese da rangers e Comanche che in questo romanzo esalta, quasi senza parere, le codate violente della storia (della Storia?), i dosati momenti di lirismo, la carsica presenza dell’ironia, mentre McMurtry tratta le luci e le ombre dell’anima insieme a quelle del West…
Intanto che cavalchiamo o riposiamo insieme ai suoi cowboys, proteggendoci a stento dal gelo della notte, guardiamo in faccia un mondo primitivo e umanissimo.
E che importa allora della corruzione di un moderno evo che sta trionfando sulla magia seppure crudele del passato? E cioè: che importa allora del mito del West che Larry McMurtry ha avversato e cercato abilmente, per gran parte della sua vita di scrittore, di affrontare e decostruire? Al di là di ogni possibile significato, qui vale il raccontare. È la cosa che a Larry McMurtry, autore da Pulitzer (Lonesome Dove) e da Oscar (Voglia di tenerezza e la sceneggiatura non originale di Brokeback Mountain), debuttante con titoli leggendari come Hud il Selvaggio e The Last Picture Show, riesce benissimo. Semplicemente raccontare…
Nella foto in alto, Larry McMurtry. Dalla cover del romanzo Last Picture Show