Trama. Due amici e colleghi spazzacamini – sic! ma non pensate subito al neorealismo italiano o a una commedia disneyana con Julie Andrews e Dick van Dyke – questi due spazzacamini, dicevo, sono entrambi etero e sposati con prole, eppure si trovano a vivere esperienze inattese che mettono in dubbio (o addirittura in pericolo?) la loro percezione della sessualità e dell’identità.
Uno di loro ha un incontro molto casuale con un altro uomo, un cliente – semplicemente gli capita e lui dice di sì! -, e gli sembra che vada bene così, non considera l’amplesso come un segno inaspettato di gayness o di infedeltà coniugale. Quando confida l’avventura alla moglie, però, con sua grande sorpresa, vede aprirsi nel suo matrimonio una sottile ma profonda crepa.
L’altro amico è turbato da sogni ricorrenti in cui viene percepito come femmina e coinvolto in una storia con – nientemeno – David Bowie: ciò lo porta a interrogarsi su quanto la sua immagine sia influenzata dallo sguardo degli altri…
Intanto, uno spettatore medio si chiede: da dove arriva questo intelligente e apparentemente compassato cinema di parola, fatto di lunghe conversazioni a camera se non ferma molto quieta (si arriva, all’inizio, a dieci minuti buoni di chiacchiera senza interruzione), inquadrate dalla luce chiara delle case e delle strade e dei tetti di una città del Nord Europa? Da dove arriva tanta algida civiltà (apparente)? E chi è questo regista, Dag Johan Haugerud, norvegese sessantenne rivelatosi quasi all’improvviso nel cinema internazionale passando per Berlino, che qui è alle prese con Sex, terzo e ultimo capitolo a arrivare sui nostri schermi, pur essendo il primo girato, della sua Trilogia delle relazioni (Sex Dreams Love)?
Ma presto in platea ci si dimentica di queste futili domande, anche di quelle più cinefile – non è che Haugerud assomiglia un po’ a Rohmer e un po’ (inevitabilmente) a Bergman, riletti entrambi con una grazia disincantata? E non è che Haugerud ha preso qualcosa, per esempio una certa falsa impassibilità di sguardo, a Kaurismäki (in versione però borghese)? Insomma: si viene catturati dal flusso di parole e immagini. E si entra facilmente nella pensosa dimensione di questo tranche de vie, illuminato da un umorismo sotto traccia che rende tutto molto molto leggero, e dove due uomini possono chiedersi “chi sono io?” in bilico accanto a un camino… Ovvero: ma chi ha detto che una storia profonda sull’indecifrabile natura dell’attrazione, dell’orientamento sessuale e dell’identità personale, per colpirci debba essere pesantemente noiosa?