Il topos della femmina “folle”, che remando contro si chiama fuori dagli schematismi e dalle gabbie della convenzione è irresistibile. Al suo richiamo cede anche Mario Martone con Fuori, scritto con Ippolita Di Majo, fotografia di un pezzetto della vita di Goliarda Sapienza. C’è stato un tempo in cui nessuno o quasi sapeva chi fosse – solo nel 2008, postumo, viene pubblicato per intero L’arte della gioia il romanzo cui dedicò la vita – ma in questi ultimi anni, invece, la scrittrice catanese sembra diventata imprescindibile.
Curioso, o forse no – honni soit qui mal y pense, ma il sospetto su un pizzico di furbizia viene – che per vestire i panni anni Ottanta di Goliarda, Martone abbia pensato a Valeria Golino, già regista di una miniserie tratta proprio dal libro più noto di Sapienza. E Golino non tradisce le aspettative: è brava, credibilissima, specie se prima di andare a vedere il film si fa il compitino di ripescare vecchie interviste alla scrittrice. Balza infatti all’occhio la sua postura sempre composta, persino quando è nuda seduta sul gabinetto, una postura che somiglia a quella della vera Goliarda.
Martone sceglie di raccontare un periodo decisamente fuori dall’ordinario nella vita di Sapienza, che pure ordinaria non lo era mai, decima nata di una famiglia di anarchici socialisti siciliani: in un momento di ristrettezze, la donna ruba alcuni gioielli a casa di un’amica e viene beccata. Finisce in carcere a Rebibbia, e lì trova una verità di rapporti che fuori le mancava, stringe amicizia con le altre detenute, anzi, di una di loro, Roberta (Matilda De Angelis) s’innamora, ricambiata come lo si può essere da una ragazza molto più giovane, tossicodipendente, coinvolta nel terrorismo, che ha rotto ogni rapporto con la madre e dunque in forte Edipo. Intendiamoci, nel film questo amore è fisicamente appena accennato, ci sono tenerezze e qualche bacio, ma è chiaro che il vero fulcro del film sia il sentimento che le lega.
Difatti a un certo punto la storia assume i contorni del road movie a due, nonostante si svolga a Roma e dintorni, ma Roma, si sa, è un mondo. La periferia tutta rovi e prati arsi, alternata all’eternità dei luoghi da cartolina, si presta perfettamente a un viaggio che Goliarda e Roberta compiono con numerosi stop and go, a tratti farraginoso. Risultano più efficaci le scene carcerarie, dove si ritaglia un ruolo di tutto rispetto Elodie, brava nell’interpretare Barbara, con il sogno di aprire una profumeria di lusso anche in un quartiere proletario, o quelle dove il duetto diventa terzetto o quartetto. Quando Goliarda e Roberta vengono lasciate sole a vagare, serpeggia invece un po’ di noia: i dialoghi sono a tratti esangui, troppo letterari, mancano di una corrispondenza con un sentimento forte e quasi proibito. Vorresti succedesse qualcosa che non succede, l’amore gira in tondo, la sola Golino osa un nudo totale, bello, naturale, mentre le altre chissà perché no, anche quando servirebbe. Le corse coi tacchi di De Angelis, ingabbiata in un personaggio un po’ troppo stereotipato, le hai già molto viste, altrove.
Si è molto parlato delle stroncature dei critici stranieri, ma forse è proprio questo che non li ha convinti, più che la scelta di mostrare una sola parte della biografia di Goliarda: se prometti di mostrare un personaggio controverso, ma lo abbozzi e basta, non vai mai fino in fondo, lasci a bocca asciutta.
In quanto alla parte storica, Goliarda riteneva che solo conoscendone dal di dentro le carceri, i manicomi e gli ospedali, si potesse capire un Paese. Che Paese fosse l’Italia negli anni Ottanta lo capisci però solo guardando uno spezzone di un vero programma televisivo condotto da Enzo Biagi: la scrittrice è circondata solo da uomini, che hanno tutta l’aria di considerarla una svalvolata, eppure lei mantiene la consueta postura composta, non ha nulla della fricchettona maledetta che sarebbe stato fin troppo facile denigrare. Chissà che non fosse proprio questo a isolarla completamente, fino a farle tentare il sucidio? La sensazione di profonda solitudine di Goliarda è la cosa più riuscita del film: anche quando è in compagnia delle amiche carcerate, resta sempre una cosa a parte, un’altra cosa, vittima in un certo senso del suo ruolo di narratrice, che la fa ladra delle storie degli altri, più che attrice della sua.