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Tim Buckley, il ragazzo delle stelle, scomparso mezzo secolo fa

Quando Tim Buckley morì, cinquant’anni fa, all’età di 28 anni, per un’overdose di eroina, si dice che possedesse solo la sua gloriosa Fender electric XII e una dodici corde acustica Guild F-212. Quest’ultima immortalata nella copertina del doppio Lp Dream Letter-Live in London 1968 pubblicato postumo parecchi anni dopo.

Prologo con protagoniste le chitarre

Anche Nick Drake, coetaneo di Buckley, morto solo qualche mese prima, nel novembre del 1974, aveva una Guild, ma del modello M20 acustica, a sei corde. La imbraccia sulla copertina del suo disco forse più bello, Bryter Layter. Le Guild hanno un suono molto rotondo, ben bilanciato su tutte le frequenze e Nick era un ottimo chitarrista.

Tim Buckley aveva cominciato suonando il banjo, per passare quasi subito alla chitarra. Non poteva usare il barré per un incidente avuto da ragazzo, giocando a baseball. La chitarra però non era il suo punto di forza. Possedeva un range vocale a dir poco prodigioso, che spaziava dal baritono al tenore e usava il falsetto con grande naturalezza, passando senza difficoltà apparenti dalle corde vocali spesse a quelle sottili.

Questa ricercatezza vocale lo accomuna spesso a John Martyn, amico di Nick Drake e come lui in quegli anni a contratto alla Island, la leggendaria piccola casa discografica inglese, fucina di talenti e di grande innovazione musicale nell’ambito del folk inglese.

Tim Buckley in una foto di Jørgen Ange (circa 1974)
Tim Buckley in una foto di Jørgen Ange (circa 1974)

A John piacevano le Martin, tanto che la scelta del suo nome d’arte lo aveva proprio mutuato, senza troppa fantasia, da questa storica marca di chitarre acustiche. Aveva semplicemente sostituito la i con la y, un vezzo abbastanza diffuso allora nell’ambiente musicale. Anche Drake amava le Martin, tanto che il suo storico arrangiatore Robert Kirby disse: “ho visto Nick suonare sempre una Martin D28 o una chitarra classica (una Yamaha, nda), ma quando uscì il disco Pink Moon (il terzo e ultimo album registrato in vita da Drake, nda) vendette tutto quello che aveva e comperò una Martin 00018”. Che sia vero o meno, quello che è certo è che le Martin enfatizzano soprattutto le frequenze basse, che negli arpeggi di Drake hanno spesso un ruolo centrale. Ma hanno anche un suono avvolgente e potente, il cui colore è rafforzato da casse armoniche capaci di grande risonanza, una caratteristica che John sfrutta al meglio con il suo fingerpicking istintivo e con quella modalità particolare di battere sulle corde basse.

Gli esordi difficili

Quando nel 1967 il giovanissimo Martyn registra il suo primo Lp, London Conversation, Buckley è alla sua seconda prova discografica, sempre per l’Elektra, quel Goodbye and Hello che in un articolo del 30 settembre Billboard esaltò con queste parole: “Molte parti del disco sono emozionanti. La vena non è quella folk tradizionale e si percepiscono echi dylaniani”. Gli arrangiamenti infatti risentono della nascente psichedelia – direi soprattutto in Carnival song e Hallucination – e i testi sono scritti in gran parte a quattro mani con Larry Beckett, amico di college e collaboratore fin dagli esordi. Nonostante l’entusiasmo con cui il disco venne salutato dalla critica, ma anche dal produttore dell’Elektra, Jac Holzman, lo stesso che aveva messo Buckley sotto contratto l’anno prima giudicandolo una promessa, Goodbye and Hello non ebbe un grande riscontro di vendite, anche se andò meglio del suo Lp d’esordio, quel Tim Buckley che qualche anno dopo, il suo storico chitarrista Lee Underwood avrebbe liquidato come disco di “folk liceale”. (pag. 80 di Dream Brother. Musica e vita di Jeff e Tim Buckley, di David Browne, Giunti 2000).

Se le vendite discografiche languivano, l’unica forma di sostentamento economico risultavano i concerti. Buckley in quegli anni fece da spalla a tantissime future leggende del rock: dai Mother of Invention all’Incredible String Band, dai Velvet Underground a Nico, la loro mitica cantante, che lo scritturò attraverso il comune amico Jackson Browne. Si esibiva prima di lei in un locale dell’East Village, il Dome. “Se cantava a voce alta, la gente parlava a voce alta. Se cantava a voce bassa neppure si sentiva” scrisse usando la terza persona, in una lettera all’amico Beckett. “…Ma dopo le prime settimane ha cominciato ad arrivare sempre più gente e lui si è abituato a cantare in mezzo a tutta quella confusione” (pag. 82, già citato).

Buckley a New York nel 1967 (foto David Gahr)

In quell’anno all’ensemble che accompagnava stabilmente Buckley nelle esibizioni dal vivo e che solitamente comprendeva amici della prima ora, come il chitarrista Underwood, il bassista Jim Fiedler e il percussionista Carter Collins, si unirono il contrabbassista John Miller e il vibrafonista David Friedman, entrambi con interessi musicali che spaziavano dal jazz alla musica contemporanea, da Miles Davis a Erik Satie. Vibrafono e contrabbasso non erano normalmente strumenti che comparivano nei dischi di musica rock di quegli anni, così come le contaminazioni jazz erano ancora episodi sporadici e provenienti soprattutto dalla scena inglese. Vengono in mente Astral Weeks del rosso Van Morrison, ma anche The Tumbler del già ricordato John Martyn, entrambi del 1968, l’anno dopo l’uscita di Goodbye and Hello. E in effetti, in quell’anno Tim si esibì per la seconda volta a Londra, alla Queen Elizabeth Hall e poiché per ragioni economiche dovette lasciare a casa il proprio contrabbassista Miller, l’esibizione fu accompagnata da Danny Thompson, in forza ai Pentagle, un gruppo innovatore nell’ambito del folk inglese. Danny aveva iniziato a collaborare anche con John Martyn e successivamente era presente nelle registrazioni di Drake. Buckley stava ancora promuovendo Goodbye and Hello, ma nel corso delle esibizioni che tenne in Inghilterra vennero suonati solo pochi brani di quell’album, mentre furono diverse le nuove composizioni. Ne resta traccia nel doppio Lp live Dream Letter, che abbiamo ricordato in apertura, in cui compaiono brani sia dei due successivi album di Buckley del 1969, ovvero Happy Sad, un vero e proprio ossimoro (ne userà uno anche John Martyn, per il suo sperimentale Inside Out del 1973), e Blue Afternoon che uscì all’inizio del 1970, anche se con un’etichetta diversa, la Straight di Frank Zappa. Nel live citato compare pure un brano di Sefronia, un disco del 1973. Si tratta di Dolphins, un bellissimo omaggio a un cantautore che Buckley stimava molto e alla cui registrazione, presso i Capitol Studios di Hollywood, aveva assistito con l’amico Beckett nel 1967.

“Osservare gli esperimenti di Fred Neil lasciò un segno indelebile su Tim “ ricorda Larry. “Lo ispirò a esaminare uno stesso pezzo sotto più aspetti, a correre dei rischi” (pag. 85, opera già citata). Senza azzardare letture psicologiche del testo, probabilmente ci sono forti richiami autobiografici, che nell’album Dream Letter, rimandano al suo primo matrimonio e a quel figlio, Jeffrey Scott (che poi prenderà il nome artistico di Jeff Buckley), allora di pochi mesi, che in un’intervista al proprietario del New York Folklore Center del 1967 Tim sosterrà di non aver mai potuto vedere per colpa dei genitori della ex moglie. A quanto pare una verità alternativa che non corrispondeva alla realtà fattuale. Non sarà un episodio isolato. Con Jerry Hopkins dell’East Village Eye, qualche mese dopo, Tim si inventerà un’esistenza alternativa, fatta dalla frequentazione di bettole tra Georgia e Arizona.

Il volo dello Starsailor

Con Happy Sad e il successivo Blue Afternoon, Buckley imbocca una strada artistica tanto innovativa sul piano musicale, quanto lontana da quello che si aspettava il suo pubblico e anche la casa discografica, che come abbiamo ricordato puntava molto sulle sue potenzialità musicali. Il jazz di Miles Davis e di Cecil Taylor entrano prepotentemente negli arrangiamenti e la voce si fa più grave e profonda. I brani abbandonano spesso la canonica “forma canzone”, sia nei tempi, già superati da numerosi musicisti rock, a cominciare dal Bob Dylan di Blonde on Blonde, sia nella costruzione melodica e testuale. Come ad esempio in The Train, il brano di chiusura di Happy Sad. Comunque, la sua carica creativa è in questo biennio veramente travolgente.

Il ragazzo delle stelle
Il ragazzo delle stelle

Tre album in una manciata di mesi. L’ultimo sarà Lorca, ispirato al poeta spagnolo, che Daniella Sapriel, un’amica, gli aveva fatto conoscere, regalandogli qualche mese prima un libro con le sue poesie. Il disco si apre con il brano omonimo, ispirato espressamente a In a Silent Way, l’album di Miles Davis pubblicato solo un mese prima e diventato immediatamente uno dei preferiti di Buckley. In particolare il riferimento è ai brani Shhh e Peaceful con la voce che prende il posto della tromba di Davis e la stessa atmosfera basata sul tappeto sonoro creato dalle tastiere e dalla chitarra di Underwood. Lorca è anche l’ultimo capitolo del suo percorso in Elektra ed il primo con vari rimaneggiamenti nella formazione storica che lo ha accompagnato in quasi tutti i precedenti album. Pubblicato ormai solo per doveri contrattuali, il disco non riceve alcuna vera promozione e in termini di vendite tocca il livello più basso, meno dei già scarsi risultati ottenuti da Happy Sad e Blue Afternoon.

A pochissima distanza Buckley licenzia Starsailor, l’ultimo capitolo di questa sua personale scorribanda in territori sonori estremi. Ci sono pezzi “leggeri”, come Moulin Rouge e per certi versi Song to the Siren, un brano d’atmosfera che Buckley eseguiva dal vivo già da tempo. Ma nel complesso il disco non lascia tregua all’ascoltatore. Si va da Come Here Woman, con continui cambi di tempo e la voce di Tim che sale e scende, con acrobazie vocali che ne evidenziano le formidabili capacità tecniche e l’incredibile estensione, a Monterey, un brano costruito attorno a una semplice frase della chitarra di Underwood, su cui percussioni e fiati cambiano registro e atmosfera di continuo.

Il lato b del disco è ancora più sperimentale, con testi in cui è il suono delle parole a giocare il ruolo da protagonista e Buckley che si scatena in timbri e registri sonori diversi, su tempi inusuali non solo per il rock e il pop. D’altra parte, che quello non fosse più il riferimento della sua musica era ormai evidente a tutti. In un articolo sul New York Times del novembre di quell’anno, il 1970, celebrando il duecentesimo anniversario della nascita di Beethoven, Tim si pone domande inusuali e profonde: “la musica è davvero importante per la gente o è solo una questione di mode passeggere”. E ancora: “… [Il rock] è senza comunicativa. Suonare è meno importante che leggere le classifiche di Billboard e adeguarsi alle tendenze”. Il problema è che la musica di Buckley e i suoi arditi esperimenti vocali non avevano più alcun seguito. A pochi giorni dall’uscita di Starsailor, Buckley e il suo ensemble suonarono all’Academy of Music di New York, nella prima di due serate che tra i partecipanti vedevano musicisti del calibro di Van Morrison. “[Tim] mostrò di non curarsi minimamente del pubblico” scrisse in una sua recensione dell’evento Billboard. Mentre Melody Maker definì Starsailor “un album estremamente difficile per l’ascoltatore”, e la ricerca musicale di Buckley “…un progetto coraggioso, ma inopportuno”. Intanto, il suo storico chitarrista e sodale, Lee Underwood, lo aveva lasciato, per seri problemi di alcolismo e Tim era praticamente disoccupato, dopo una serie di concerti che ne avevano completamente azzerato la reputazione nell’ambiente musicale.

Verso l’autodistruzione

Greetings from L.A. esce nel 1972. “Il ritorno sulla scena è una componente importante del processo creativo. Non vali niente se non sei tornato almeno tre o quattro volte. Io sono pronto per il mio primo rientro”, questa la sua dichiarazione che fece da lancio per il nuovo disco. Un mesto rientro, segnato dal funky e da recensioni piuttosto fredde, con pochissimi passaggi radiofonici, anche per i testi piuttosto espliciti sul piano sessuale. Sefronia, dell’anno successivo, resta un album fragile, con la riproposizione di diversi brani di altri musicisti. Vi compare finalmente Dolphins di Fred Neil, che Buckley cantava già da diversi anni – ne abbiamo parlato prima – e Martha, una cover, rivista nel testo, del giovane Tom Waits, a riprova che la vena creativa di Tim si era ormai esaurita. Diversi segnali, mostravano come anni di eccessi nel consumo di droghe e alcol avessero prodotto una personalità borderline.

Tim Buckley in una foto di Grant Gouldon (circa 1968)

Illuminante il racconto che un suo vecchio amico Dan Gordon ha rilasciato a David Browne, autore del testo Dream brother. Vita e musica di Jeff e Tim Buckley a cui abbiamo attinto a piene mani per questo ricordo, del loro ultimo incontro all’inizio del 1974: “…un uomo morto. E una delle cose che ho imparato è che non devi stare vicino ai morti. Finisci per farti ammazzare”.

Nulla su cui valga la pena soffermarsi per l’ultimo album Look at the Fool del 1974. La parabola artistica di Tim Buckley finisce con l’autodistruzione per overdose. Al funerale, tenutosi il 2 luglio 1975, non era presente l’amico e collaboratore Beckett e così fu Lee Underwood, il chitarrista che lo aveva accompagnato nella sua scorribanda verso le stelle a leggere, come epitaffio, la lunga poesia che Dylan Thomas ha dedicato alla giovinezza, Fern Hill.

Oh as I was young and easy in the mercy of his means, / Time held me green and dying /
Though I sang in my chains like the sea” (“Oh come ero giovane e perduto nella spensieratezza dei miei anni, il tempo mi obbligava a essere acerbo e morente, anche se cantavo nelle mie catene come il mare”, trad. Alberto Poggi).

Tim Buckley forever
  • Alberto Poggi scrive e collabora con varie testate, tra cui il giornale online Periscopio. L’informazione verticale, occupandosi di musica e tematiche ambientali. È chitarrista e da alcuni anni ha intrapreso la difficile ma stimolante arte della liuteria
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