Nei nostri incessanti movimenti da formichine frenetiche che percorrono il pianeta, ignoriamo serenamente il mondo nascosto sotto di noi. O meglio, ne deleghiamo la conoscenza a chi trivella, penetra, esplora, sfrutta, estrae. Oppure a chi, di mestiere, lo immagina e lo ricrea: il buco magico dentro il quale cade un’Alice serafica e curiosa, il viaggio al centro della terra di Verne, il “sottosopra” magnifico e terrificante della serie Stranger Things, la ricerca ansiosa di una tana-rifugio in uno degli ultimi racconti di Kafka, il signor Mohole (il nome rimanda a un progetto di trivellazione), personaggio incompiuto di Calvino, persino il mito della “terra cava”, il regno sotterraneo che tanto piaceva ai nazisti e a Hitler.
Di tutto questo, tra geologia, ecologia, narrativa, cinematografia, fantascienza e tanto altro, scrive Niccolò Scaffai, docente di letteratura italiana all’Università di Siena, nel saggio Sotto l’inesauribile superficie delle cose, edito dai tipi (sempre in gamba) di Aboca. Sottotitolo: Il paradigma della profondità nell’immaginario dell’Antropocene. Cavità terrestri e sottomarine, s’intende. Il mare occulta e preserva abissi che, seppure contaminati dalle nostre attività invasive, ancora riescono a sfuggire agli scandagli umani. Tanto che, quando i fari dei sottomarini scientifici illuminano quelle tenebre liquide, restiamo stupefatti di fronte all’esistenza di creature mostruose, apparentemente indifferenti di fronte allo scorrere delle ere geologiche sulla terraferma.
Nelle sue sei “lezioni sulla profondità”, Scaffai ci porta un po’ ovunque, con deviazioni sapienti e fantasiose. Di tutta la letteratura che affronta il tema del sottosuolo, è Calvino quello che più spesso appare in queste pagine. E a noi piace, di ciò che racconta Scaffai, soprattutto la rievocazione di Teodora, penultima tra Le città invisibili, del 1972, i cui abitanti, presi da una “furia igienica e razionalizzatrice”, bonificano la città da ogni intruso animale. Ma non hanno fatto i conti con il ritorno del rimosso, del represso.
Se riportiamo quasi per intero un brano di Calvino, è per la superba evocazione di un mondo sotterraneo pronto a riemergere alla prima occasione: «L’uomo aveva finalmente ristabilito l’ordine del mondo da lui stesso sconvolto: nessun’altra specie vivente esisteva per rimetterlo in forse. Così almeno gli abitanti di Teodora credevano, lontani dal supporre che una fauna dimenticata si stava risvegliando dal letargo. Relegata per lunghe ere in nascondigli appartati… l’altra fauna ritornava alla luce dagli scantinati della biblioteca dove si conservavano gli incunaboli, spiccava saltelli dai capitelli e dai pluviali, s’appollaiava al capezzale dei dormienti. Le sfingi, i grifi, le chimere, i draghi, gli ircocervi, le arpie, le idre, i liocorni, i basilischi riprendevano possesso della loro città».
Dai sotterranei onirici di Calvino alle grotte africane di oggi, dove si annidano colonie di pipistrelli dormienti che incubano virus capaci di scatenare potenziali pandemie. E dalle tane di specie che sarebbe meglio lasciare indisturbate alle caverne artificiali costruite dall’uomo per combattere uno dei suoi incubi ricorrenti: l’apocalisse climatica o nucleare.
Così ecco bunker atomici di raffinata tecnologia per salvare un’umanità che si minaccia da sé medesima; o grandiosi depositi per preservare le specie vegetali esistenti sul pianeta, come lo Svalbard Global Seed Vault, costruito nell’isola norvegese di Spitsbergen, dentro una montagna di roccia arenaria, a 1.200 km dal Polo nord. Tentativo quasi biblico di scongiurare un “diluvio” climatico che rischia di estinguere gran parte delle colture e della flora terrestri.
Se dentro il suolo nascono le radici di una biodiversità che stiamo riducendo sempre più, riempiamo il sottoterra – quasi per una demenziale compensazione – di scarti, rifiuti, sostanze chimiche, immondizia. È , ricorda Scaffai, la profondità raccontata dal romanzo Underworld di Don DeLillo: «opera monumentale che, tra i suoi temi principali, ha quello delle scorie, della materia rimossa e sommersa del sottosuolo», in cui il protagonista percepisce ogni cosa, compresa la merce che ancora «luccica negli scaffali dei negozi», come spazzatura.

Si passa così dall’Antropocene al Wasteocene, l’era degli scarti, intesi non solo come rifiuti materiali ma anche come “discariche sociali”. Ed è impossibile non citare anche Gomorra di Saviano, e le sue montagne di rifiuti tossici smaltiti illegalmente dalle cosche. Volendo raffigurarseli, «diverrebbero una catena montuosa da 14 milioni di tonnellate. Praticamente una montagna di 14.600 metri con una base di 3 ettari. Il Monte Bianco è alto 4.810 metri, l’Everest 8.844». Alto e basso, scrive Scaffai, sublime e infero si corrispondono e si ribaltano.
E poi, come si diceva all’inizio, e come cantava Lucio Dalla, «com’è profondo il mare». Ambiente misterioso, accogliente e minaccioso al tempo stesso, fonte di vita e di morte , set perfetto per tanta letteratura di naufragi, tempeste, derive su isole sperdute e Shakespearenamente incantate, patria di animali la cui primitiva maestosità (tartarughe giganti, balene, orche, squali) non possiamo che ammirare, invidiare, troppo spesso sterminare.
Ed è il mare, infine, che racchiude la nostra nostalgia per un altrove nascosto e incontaminato, silenzioso e accuditivo. La sirena, metà pesce e metà essere umano, è in fondo lo struggente simbolo di tutti noi che, nati dal mare (come ogni forma di vita) abbiamo conquistato la terraferma e tuttavia non smetteremo mai di rimpiangere quelle profondità rinnegate, il nostro quotidiano paradiso perduto.
In apertura, una litografia di Escher, Tre mondi (part.), usata per la copertina del libro