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Allonsanfàn
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Oppenheimer, The End. Grande cinema alla fine del mondo

In un bunker sotterraneo, riarredato però come una magione di lusso vittoriana, vivono e sopravvivono Madre (il premio Oscar Tilda Swinton), Padre (il candidato all’Oscar Michael Shannon) e Figlio (George MacKay) più alcuni a loro essenziali famigli, e tutti cercano di mantenere una parvenza di normalità aggrappandosi a piccoli rituali quotidiani.

Joshua Oppenheimer The End

L’arrivo di una ragazza nera (Moses Ingram), da un misterioso “fuori”, ovvero da un esterno incombente e minaccioso come un segreto del passato, incrinerà il delicato equilibrio dell’aristocratico microcosmo, l’apparente idillio familiare…

Il film del pluripremiato Joshua Oppenheimer (candidato agli Oscar per The Act of Killing e The Look of Silence), al debutto con un lungometraggio di fiction, chiede di dare per assodato quello che nella trama non è spiegabile razionalmente.

Infatti. Oppenheimer non racconta in modo realistico un qualsiasi dopo bomba, ma piuttosto un sogno o un incubo di dopo bomba fatto di puro cinema, vale a dire direttamente interfacciato o connesso con un’idea forte e emotiva di cinema. La sua non è science fiction sociologica, semmai fantascienza esistenziale, morale estetica e psicologica…

Oppenheimer raggiunge abilmente il suo scopo: per due ore e quaranta imprigiona lo spettatore dentro la sua storia in un difficile equilibrio che prevede la doppia cecità dei protagonisti – quella verso un passato che si capisce sanguinoso, frutto di scelte collettive e individuali spietate nei confronti di chi è stato lasciato indietro, e quella verso un futuro nebuloso affrontabile forse solo con i paraocchi della rimozione.

Devono bastare i barlumi intravisti attraverso questo buio – sceneggiato dal regista inglese insieme al danese Rasmus Heisterberg – per tenerci in bilico sull’abisso e insieme farci apprezzare appieno The End, che è un sontuoso omaggio visivo all’epoca d’oro di Hollywood, virato nel sentimentalismo del musical, e forse un inno all’amore tout court divenuto (a noi decidere se è auspicabile) una chance per essere non umani bensì perfettamente disumani…

Joshua Oppenheimer The End

Riportiamo qui un interessante e lungo appunto di Joshua Oppenheimer, a lato del film: “Altre specie possono aver causato la propria estinzione, ma non credo proprio che l’abbiano prevista. Non ne hanno mai discusso, non è mai stata una preoccupazione, non hanno mai pianificato nei dettagli come evitarla senza poi fare nulla.

Immaginate quanto risulteremmo incoscienti ai loro occhi. Vediamo l’abisso davanti a noi, sappiamo che ci stiamo correndo incontro, eppure non cambiamo rotta. Ci diciamo che il cataclisma non arriverà mai, che il giorno della resa dei conti sarà rimandato. Come in un film d’azione, ogni volta che inquadriamo l’avvicinarsi del disastro, questo è un po’ più lontano di quanto dovrebbe essere, dando al nostro eroe giusto il tempo di salvarsi.

Alcuni, dotati di mezzi illimitati, credono di potersi permettere di rinunciare alle soluzioni collettive e decidono, invece, di salvare se stessi. Pensano che sia troppo tardi perché la nave umana possa correggere la sua rotta, ma avendo goduto di tale potere e privilegio, perché mai dovrebbero affondare con tutti gli altri? Sopravviveranno all’apocalisse da soli con le loro famiglie, tagliati fuori dalla più ampia famiglia umana. Si raccontano che possono continuare a vivere in completo isolamento e rimanere comunque umani. La loro umanità è autosufficiente. E perché no? La nostra economia si basa su questa stessa idea: che l’individuo isolato ed egoista sia l’unità fondamentale dell’essere”.

“The End esplora la logica conclusione di questo autoinganno: una famiglia rintanata in un bunker anni dopo che tutti gli altri sono morti, godendo di ogni comfort, un ultimo barlume di coscienza umana circondata dagli artefatti di una specie scomparsa, ripetendosi disperatamente di essere felici e di star bene, e che quindi sia tutto a posto.

Gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto sembrino.

Voglio che i miei film siano specchi. Cerco di invitare, convincere, a volte persino costringere gli spettatori a prendere coscienza delle loro verità più urgenti. Ciò richiede inevitabilmente il confronto con i nostri autoinganni, esplorandone le conseguenze a volte terribili. La nostra capacità di mentire a noi stessi è probabilmente il tragico difetto che ci rende umani. E sarà sicuramente quello che distruggerà la nostra specie, a meno che non ci fermiamo e troviamo il coraggio di riconoscere le nostre bugie per quello che sono.

Milan Kundera scrisse: ‘Il Kitsch fa spuntare, una dietro l’altra, due lacrime di commozione. La prima lacrima dice: Come sono belli i bambini che corrono sul prato! La seconda lacrima dice: Com’è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato!’.

La seconda lacrima è l’inizio del sentimentalismo e di solito è evasiva. Consideriamo la sensazione di piangere una seconda lacrima per qualcosa di doloroso. Non ci permette forse di scappare dalla concreta richiesta morale posta su di noi dalla sofferenza altrui e di fuggire nella comunione degli uomini? E questo non ci fa sentire bene con noi stessi per esserci uniti a tutta l’umanità nell’interesse, senza riconoscere che siamo fuggiti da un obbligo morale fin troppo reale per una finzione che ci lascia liberi?”.

“Nel mio lavoro cerco di portare lo spettatore in un luogo dove si piange una terza lacrima, dove si comprendono le tragiche conseguenze della seconda lacrima e si piangono i terribili costi del sentimentalismo stesso. Voglio far sentire a chi guarda gli effetti devastanti della fantasia di evasione, del mentire a noi stessi, del non affrontare i nostri problemi più importanti. Ma non si piange mai la terza lacrima senza aver provato anche la prima e la seconda. (Dobbiamo prima empatizzare con la paura che alimenta le illusioni dei personaggi. Non siamo mai portati alla terza lacrima quando ironizziamo, sicuri della nostra superiorità, certi di essere immuni dall’autoinganno da cui dipendono i personaggi).

Questo mi porta ai musical. Le melodie vengono introdotte presto. Quando i personaggi iniziano a cantare, l’orchestra li accompagna e il pubblico conosce già la melodia. In questo modo, le emozioni private dei personaggi vengono rese collettive. E se c’è un coro, quello che era iniziato come un momento intimo tra due innamorati si trasforma magicamente in un’occasione condivisa da decine di ballerine (e dal pubblico). Le emozioni le proviamo tutti insieme. ‘Com’è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità…’. La seconda lacrima è incorporata nella struttura del musical, rendendolo l’unica forma di cinema veramente onesta nei confronti del proprio sentimentalismo.

Questa onestà, il fatto che l’evasività della seconda lacrima sia insita nel genere, rende il musical una forma ideale per provocare la terza lacrima, per far sentire agli spettatori le tragiche conseguenze del sentimentalismo evasivo proprio del musical. Questo vale soprattutto se i personaggi sopravvivono mentendo a se stessi. In The End, la famiglia affronta il destino con un disperato e illegittimo ottimismo. I classici musical hollywoodiani di Vincente Minnelli, Gene Kelly e Busby Berkeley costituiscono, collettivamente, il genere più ottimistico del cinema. In nessun altro luogo vediamo una tale ingenua certezza dell’armonia finale del mondo (creata, va notato, proprio quando l’umanità ha sviluppato la capacità di distruggere se stessa, e il pianeta, premendo un semplice pulsante)”.

Joshua Oppenheimer The End

“Adoro questi film. Rido come un bambino felice ogni volta che un personaggio apre la bocca per cantare. Ma allo stesso tempo rabbrividisco per il prezzo che pagheremo per questa allegria da zucchero filato, per le previsioni sempre soleggiate nel bel mezzo di un uragano. Ecco, sento i miei occhi bagnarsi di una terza lacrima. Il fatto che il musical susciti in me questi sentimenti contraddittori mi dice che è il genere giusto per la disperata forma di ottimismo del bunker.

È un ottimismo che nasce dalla paura. Spaventati dall’affrontare le proprie colpe, i personaggi di The End temono il cambiamento, perché per cambiare dovrebbero riconoscere i propri errori e accettare il proprio passato. Finché non riusciranno a farlo, sono condannati a mentire a se stessi, anche nei loro pensieri privati. Espresse in una canzone, canticchiamo le loro illusioni, identificandoci con loro e allo stesso tempo assistendo alle loro tragiche conseguenze, e soffrendo per esse. Piangiamo cioè una terza lacrima.

Se i cuori dei personaggi si aprono a noi quando cantano, ma anche nel canto ingannano se stessi, al centro del film c’è una domanda spaventosa: cosa rimane di noi quando mentiamo a noi stessi nei nostri sogni e nei nostri desideri inconsci? Ma questa domanda non è forse universale? Spaventati dalla morte e dalla resa dei conti morale che essa promette, non aspiriamo forse all’eternità attraverso il riconoscimento, l’eredità e l’influenza? Non siamo forse affamati di qualcosa di più perché solo così potremmo diventare qualcuno? E le nostre ricche ma fugaci vite interiori diventano casse di risonanza per queste illusioni.

Il bunker di The End è una manifestazione di queste illusioni. Pertanto, non c’è un contrasto netto tra realtà e fantasia, tra le scene di dialogo e i numeri musicali. Le canzoni incarnano le fantasie della famiglia, ma poiché queste fantasie hanno dato vita al bunker, e prima ancora alla civiltà di cui il bunker è al tempo stesso culmine e nadir, questa tomba dorata è permeata di musica”.

Per le fotografie, Felix Dickinson, courtesy of NEON

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