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Allonsanfàn
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San Petronio e la statua scomparsa di Giulio II

Alla fine di febbraio del 1508 la statua di Giulio II benedicente venne issata in una nicchia al di sopra del portale centrale della basilica di San Petronio a Bologna. Due anni prima il papa della Rovere aveva conquistato la città, cacciandone i Bentivoglio, e quella statua, significativamente posta al centro della facciata della basilica costruita dal Comune come simbolo di libertà e di autonomia e per questo proprietà della città – e sarà così fino ai Patti Lateranensi, quando sarà ceduta dal Comune alla Diocesi – voleva dire che Bologna era sotto il controllo di Roma. Nonostante il papa avesse voluto apparire come benedicente, il suo aspetto severo doveva ricordare ai riottosi cittadini di Bologna chi era che comandava.

E siccome Giulio II voleva che la sua statua fosse anche un capolavoro, commissionò l’opera a Michelangelo, che la realizzò in meno di due anni. Tra l’altro questo periodo bolognese dell’artista fiorentino fu particolarmente proficuo, visto che le storie della Genesi scolpite da Jacopo della Quercia per quello stesso portale gli furono da ispirazione quando dipinse la volta della Sistina.

Meno di tre anni dopo, nel dicembre del 1511, i Bentivoglio tornarono in città, la statua di Giulio II fu tolta dalla facciata di San Petronio e il bronzo venne rifuso e venduto ad Alfonso I d’Este che ne ricavò una grande colubrina che chiamò Giulia: se andate a Ferrara ne potete vedere una copia proprio sotto il Castello. Bologna ha perso un capolavoro, uno dei due soli bronzi michelangioleschi, un’opera che probabilmente sarebbe diventata uno dei simboli della città, che sarebbe stato l’oggetto di foto di migliaia di turisti giapponesi. A chi mise quella statua – e a chi la tolse – questo però non importava affatto.

La targa di Piazza Galvani

Questo è spesso il destino delle statue: dovremmo ricordarlo sempre, perché prima di essere – quando lo sono – opere d’arte, sono dichiarazioni politiche. E la politica è soggetta a cambiamenti, a ripensamenti, a volte perfino a miglioramenti.

Alcuni anni fa in alcune città degli Stati Uniti sono cominciate delle campagne per promuovere la rimozione delle statue dei politici e dei generali degli Stati Confederati che sostennero la schiavitù, mentre a Chicago è stata rimossa una stele che celebrava Italo Balbo, perché quei monumenti sono figli di idee che non solo state sconfitte – e la storia, si sa, la scrivono i vincitori – ma soprattutto che ora sono considerate eticamente sbagliate, se non criminali. Poi possiamo discutere se gli industriali bianchi degli Stati del nord fossero davvero più democratici dei latifondisti bianchi di quelli del sud o se volessero soltanto sostituire una forma di schiavismo con un’altra, ma comunque l’abolizione della schiavitù è stata una conquista e, come tale, deve essere celebrata, anche attraverso la rimozione delle statue di chi si è opposto. E allo stesso modo uno dei modi in cui si segna un cambio di regime è la rimozione, se non la distruzione, delle statue volute dal regime precedente: in genere non si tratta di gravi perdite dal punto di vista artistico.

Poi ora abbiamo una sensibilità diversa rispetto ai nostri avi del Cinquecento e credo non dovremmo distruggere le statue che non ci piacciono e non ci rappresentano e anzi che abbiamo il dovere di trovare il modo di conservare quelle che togliamo dai luoghi pubblici, soprattutto se si tratta di opere d’arte, anche se per lo più non lo sono: è finito il tempo in cui si affidava ad artisti come Michelangelo una tale incombenza.

Credo comunque che queste statue rimosse dovrebbero trovare posto in un qualche museo, perché è fondamentale per una società la memoria di cosa siamo stati e penso che in quei luoghi pubblici in cui abbiamo tolto una statua dovremmo lasciare un segno di cosa c’era prima, del perché qualcuno un tempo aveva deciso di mettere quella statua e del perché adesso abbiamo voluto spostarla.

Confesso che invidio un po’ una comunità che assume come un proprio problema quali statue ci sono nei luoghi pubblici e che decide di sostituire quelle che rappresentano qualcosa che non vogliamo più che racconti quello che siamo diventati. Credo che una riflessione del genere sarebbe interessante anche nel nostro paese. Questo presuppone riflettere su cosa eravamo, su cosa siamo e su cosa vorremmo diventare: un compito a cui, evidentemente, non siamo preparati.

Nella foto in apertura, San Petronio

  • Luca Billi ha pubblicato il romanzo Anything Goes (Villaggio Maori Edizioni). Anything Goes è anche uno spettacolo teatrale. Per tenersi informati, qui
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