Altro che dolce, la vita negli anni Sessanta può essere agra, e non t’avvisa, si trasforma piano piano, in rumorosissimo silenzio, nel preciso istante in cui, proprio come canta Andrea Lazlo De Simone in Vivo, forse il brano italiano più bello dell’ultimo decennio, dentro al tuo cuore smette di bruciare anche il più piccolo ideale. È il rischio che corre il protagonista del romanzo di Luciano Bianciardi La vita agra, capolavoro trasformato da Carlo Lizzani nel 1964 in un film, protagonista Ugo Tognazzi.
Se non lo avete mai visto, godetevelo, anche se alla fine ci si scopre tristi e attoniti, perché ogni istanza suggerita da Lizzani e Bianciardi – lo scrittore collaborò alla sceneggiatura – è ancora mestamente attuale, a partire da una delle scene iniziali, la manifestazione in piazza del Duomo a Milano per protestare contro i salari bassi.

Milano è regina del film, con le sue promesse di luminoso avvenire negli anni del Boom economico, le efficienti segretarie robotiche “che si moltiplicano per partenogenesi” (questo è puro Bianciardi!), i “torracchioni”, grattacieli che ti portano sempre più in alto, l’alienazione nei rapporti umani e lavorativi.
Lo scrittore grossetano, anche insegnante, giornalista, traduttore, critico televisivo, di fatto racconta un pezzo della sua vita: anche lui era salito nella grande metropoli da una piccola realtà, ed era stato assunto alla Feltrinelli, salvo poi essere licenziato per scarso rendimento. Gustosissimo, l’aneddoto raccontato dalla figlia Luciana sul giorno in cui, anziché il suo cappotto logoro e rivoltato più volte, Bianciardi prese dall’attaccapanni dell’ufficio quello meraviglioso ed elegante di Giangiacomo, il suo editore, miliardario che teneva interminabili riunioni discettando di rivoluzione. Se lo infilò, alzò il pugno e uscì esclamando: “Viva la lotta di classe!”.
Nel film, Luciano Bianchi (Ugo Tognazzi) si trasferisce in cerca di fortuna a Milano dalla provincia di Reggio Emilia, lasciando al paesello moglie e figlioletto. Nel suo cuore ardono anche una fiammella anarchica e intenti bombaroli: vorrebbe infatti far saltare in aria il più nemico dei “torracchioni” (si riconosce la Torre Galfa di recente restauro, a tratti con innesti del Pirellone), per vendicare una strage di minatori causata dal cinismo del suo ex datore di lavoro, che del grattacielo è il proprietario.
Arrivato sotto la Madunina, in costante contatto epistolare con l’amico minatore sindacalista, s’innamora di Anna, una bella comunista romana (Giovanna Ralli, deliziosa) e i due iniziano a convivere more uxorio in camere in affitto, come usava una volta – ma anche oggi, con i ben noti universitari fuori sede a svenarsi per una stanza in condivisione – tra discussioni sui massimi sistemi, tenerezza, sensualità, e mezze porzioni in trattoria, perché i danè scarseggiano.
Lui s’ingegna a trovare di che campare, conosce le lingue, traduce, lei batte a macchina la sera gli scritti del compagno, con frequenti pause-amore (“Ti si vedono le cosce, vieni qui, dai!”). L’ottusità delle case editrici è disarmante: ecco la responsabile del reparto traduzione che lo rimprovera perché anziché scrivere: “Gli scosse la mano”, (in inglese, “shake the hand”, to shake letteralmente vuol dire “scuotere”, ma santiddio, no, in italiano non si può sentire!) traduce, ovviamente, con: “Gli strinse la mano”. Come dicevamo, con Bianciardi ci si scopre tristi, ma si ride anche molto.

Ironia della sorte, Bianchi riesce a essere nuovamente assunto proprio dall’odiato padrone, dopo aver bazzicato con successo la strada da copy nella nascente industria pubblicitaria. Magistrali le scene in cui ci si ingegna a trovare slogan per vendere biscotti o medicine, meravigliosa quella in cui Luciano, in un locale della periferia dove fa capolino un giovanissimo Enzo Jannacci che canta L’ombrello di mio fratello e poi la struggente Ti te se no, espone a un gruppo di amici tutti i luoghi in cui una coppia, non distratta dall’istigazione al consumismo, potrebbe fare all’amore.
Il benessere economico avviluppa, è bastardo, bisognerebbe restare vigili o le rate per comprare casa rischiano di avere la meglio sull’illusione di cambiare il mondo, di poter vivere l’amore in maniera diversa, pura e complice.
La Stazione Centrale è l’alfa e l’omega del film, ed è impossibile non ricordarsi dell’arrivo dei Parondi in Rocco e i suoi fratelli di appena quattro anni prima, solo che qui siamo già arrivati a un altro tipo di disincanto, intellettuale, sottile, implacabile. L’architettura avveniristica, i palazzi in costruzione, i lavori per la nuova metropolitana, i marciapiedi, le auto incolonnate, sono, anche, attori della vita meneghina, ieri come oggi. “Avevo scritto un libro incazzato e speravo che si incazzassero anche gli altri. E invece è stato un corteo di consensi, pubblici e privati, specialmente a Milano”, scriveva amareggiato Bianciardi. “Dice Giancarlo Fusco (altro geniale irregolare, incontrato al Giorno, dove entrambi collaboravano, ndr) che se questa città tu la aggredisci da buon pugile, la città è leale, accetta il combattimento, e dopo ti stringe la mano. Io non ci credo. Questa città è vile, perché prende a calci in bocca chi sta male, e si fa generosa con chi ha fortuna”. Luciano Bianciardi, muore il 14 novembre del 1971, alcolista, deluso, solo. Un mese dopo, avrebbe compiuto 49 anni.
Nella foto in alto: anni Sessanta, Luciano Bianciardi a Milano. Il romanzo La vita agra si può trovare in edizioni Rizzoli, Bompiani o Feltrinelli; il film si può vedere su Prime