UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Il Mann di Colm Tóibín è un mago ingenuo

L’uomo Thomas Mann è quello “contro cui lo scrittore [Thomas Mann] ha eretto il muro della sua scrittura, che ha opposto alla difficoltà di vivere il monumentale baluardo della sua arte” (così il germanista Luca Crescenzi su Pangea).

Risveglia prima di tutto la curiosità il romanzo (non il saggio) Il mago di Colm Tóibín (Einaudi), irlandese, classe 1955, che si è preso il piacere di abbattere o aggirare appunto “il monumentale baluardo”, scrivendo una libera biografia dell’uomo Mann, imperniata sull’omosessualità dello scrittore di Lubecca. È un segreto di Pulcinella oggi che si conoscono anche se a spanne i diari di Mann e della moglie Katia: ma nel prologo, Tóibín ribatte che l’irreprensibile Mann, il “tedesco più rispettabile del suo tempo”, “pensava costantemente a una vita sessuale che gli era preclusa”. Tóibín, di conseguenza, gli restituisce e ci restituisce il costante pensiero.

Infatti. Leggendo Il mago, si ha subito l’impressione che capiremo poco di più dell’opera spesso impervia di Mann (“il monumentale baluardo” costituito da La montagna incantata o magica che sia, o dal Doktor Faustus, eccetera), trovando semmai il bonus di una parziale e arbitraria, poiché creativa, slatentizzazione narrativa sia delle tendenze sessuali sia della sentimentalità del tedesco. Insieme a questa, e legata doppio filo, Tóibín ci offre l’identità fragile di Mann, ignaro tra l’altro dell’orrore che la storia prepara alla sua generazione, quel disastro da fine del mondo di due guerre mondiali con in mezzo l’ascesa del nazismo.

È il momento di sfoderare la wiki-citazione del Proust di Contro Saint-Beuve: «Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi». Questo per dire: Il mago di Tóibín è destinato più che al lettore di Mann a chi desidera leggere la storia di un uomo a suo modo complicato ed emblematico, chiamato forse per caso o per azzardo come uno dei massimi scrittori vissuti tra Ottocento e Novecento.

Il romanzo di Tóibín ha un limite oltre a quello di poetica, di scelta consapevole. Cerchiamolo nel testo, quando l’irlandese offre un intero capitolo all’incubazione di La morte a Venezia.

Bene. Mann, sbarcato per diporto a Venezia nel 1911 con la moglie Katia e il fratello Heinrich, è così naïf da pensare, salito in gondola, che si tratta di un’imbarcazione votata alla solennità, adatta a trasportare bare. Non sarà invece Tóibín naïf a immaginare che simili pensieri nascano in testa a Mann il giorno stesso in cui giunge in laguna dopo aver saputo che è morto Mahler? Mann dovrebbe andare oltre al cliché che vuole le gondole mortuarie. A meno che ignori pure La gondola funebre di Liszt scritta per Wagner, dopo che Lizst era stato ospite del musicista tedesco trent’anni prima a Palazzo Vendramin.

Comunque sia, da quando arriva a Venezia, in mezzo a discorsi da ristorante (o da bar seppure dell’Hotel Des Bains) sul mondo alienato che ha perso ogni chance di grandezza, tutto ciò che capita a Thomas Mann gli fornisce un pezzo del romanzo lagunare.

L’apparire di un affascinate ragazzetto polacco, il vivido ricordo di Mahler, il venditore di fragole lerce sulla spiaggia, i bagagli persi da Heinrich, il colera scoppiato a Napoli… Tutto finisce, come palle in buca di un biliardo, ne La morte a Venezia. Anzi La morte a Venezia si scrive da sé, quasi fosse una sorta di racconto composto da elementi ready made, cui il desiderio irrealizzabile di Mann per il prototipo di Tadzio – il ragazzetto con il nome incomprensibile di due sillabe gridato in spiaggia – regala il soffio vitale, sebbene già ingarbugliato in maniera decadente con l’idea della morte (Mahler, la funebre gondola naïf).

Colm Tóibín

A questo punto, poi, Mann ha una preponderante preoccupazione, tutt’altro che legata all’estetica (e conosciamo invece la portata dell’interrogarsi sull’arte riecheggiato tanto tempo dopo nei noiosissimi flashback del film di Visconti): Tóibín ritrae Mann come una sorta di marito da tragi-commedia il quale teme che la moglie, letto La morte a Venezia, lo sgami e gli presenti il conto.

Passiamo oltre, cambiando scena: nel finale dello stesso animato capitolo, Katia malata di tubercolosi va ospite in un sanatorio a Davos. Quando Mann si decide a farle visita, appena preso il piccolo treno svizzero, si trova “calato in quel mondo montano che faceva capo a Katia. Un mondo dominato dalla malattia”. Ne siamo certi, La montagna incantata o magica che sia gli verrà benissimo…

Questo per dire: leggete una pagina di Tóibín e una, a caso, del Doktor Faustus. Sarà chiara la differenza tra un normale (o mediocre) scrittore e un grande scrittore. Ovvero: un normale (o mediocre) scrittore non può entrare più di tanto nella testa di un grande scrittore. O no?

Nella foto di apertura, Thomas Mann all’Hotel Adlon di Berlino (Credit: File:Bundesarchiv Bild 183-H27031, Berli”File:Bundesarchiv Bild 183-H27032, Berlin, Thomas Mann im Hotel Adlon.jpg by Unknown author is licensed under CC BY-SA 3.0. Colm Toibin and Rawi Hage by Jeremy Weate is licensed under CC BY-NC 2.0)

I social: