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Allonsanfàn
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Rileggendo Perniola sul ’68, i sessantottini e Berlusconi

Avevo 16 anni quando il ’68 scoppiò. Non ci capii granché. Di certo mi persi il meglio. La prima manifestazione a cui partecipai fu a favore di Alexandros Panagulis. Non avevo la più pallida idea di chi fosse. Sapevo solo che era in carcere e che in Grecia c’erano i fascisti. Motivo più che sufficiente per non andare a scuola. Poi, proprio quando iniziavo ad avere le idee un poco più chiare, il ’68 creativo e generativo cedette il posto alla stagione dell’odio. La bomba che esplose il 12 dicembre 1969 a Milano segnò la perdita dell’innocenza.

Una premessa necessaria per chiarire che di quegli anni ho un ricordo distorto e confuso. Credo siamo in parecchi della mia generazione ad aver scambiato la lotta di classe con gli scazzi familiari: marxisti immaginari inconsapevoli di quasi tutto, escluso uno sconfinato desiderio di autonomia e libertà. Sono quindi grato al ’68, se non altro perché sgravò le ragazze dal grembiule a scuola (e qualche anno dopo pure dagli uffici) e noi maschi dall’obbligo della giacca e cravatta. Il Paese ingessato dai riti della piccola borghesia che Franca Valeri sbeffeggiò e poi rimpianse, il Paese delle lucciole perdute per via dell’insensato desiderio che la gente ebbe di vivere in modo un poco più comodo e agiato, perdita che tanto fece soffrire Pier Paolo Pasolini, quel Paese scomparve per sempre. Per una breve stagione avemmo la speranza di vivere in una comunità più libera, più giusta perché più moderna. (il tema della modernità intesa come sviluppo e progresso collettivo suscita ancora oggi polemiche inaudite).

Come sappiamo l’illusione fu di breve durata. Assai più a lungo durarono invece i sessantottini, formidabile categoria fenomenologica i cui effetti paiono destinati a durare per sempre. Ne è prova il fatto che in questo interminabile lasso di tempo sia stata prodotta un’infinità di memorie di genere; da un lato i reduci, che quella stagione hanno saputo trasformare in lucrosa professione; dall’altro i critici alla “sapesse signora mia”, i quali attribuiscono al ’68 la responsabilità di qualsivoglia fenomeno regressivo della società italiana. Inutile dire che è insensato perdere tempo con entrambe le categorie.

Finalmente, tra le eroiche rimembranze di Mario Capanna (Formidabili quegli anni” Garzanti) e le risentite rampogne di Ricolfi-Mastracola, scopro un volumetto feroce quanto intelligente, come appunto dev’essere un pamphlet.

L’autore è il filosofo Mario Perniola. Pubblicato nel 2011, rieditato il 5 luglio di quest’anno, il suo Berlusconi o il ’68 realizzato (Mimesis), non risente affatto del tempo trascorso. La tesi di Perniola è che Berlusconi (l’autore finge una costante amnesia per il nome del tycoon di Arcore) abbia realizzato gli ideali del ’68: fine del lavoro e della famiglia, distruzione dell’Università, deregolamentazione della sessualità, ostilità dei confronti delle istituzioni giudiziarie, vitalismo giovanilistico, trionfo della comunicazione di massa, oblio della storia, presentismo.

Mario Perniola Berlusconi Mimesis

L’ho letto con curiosità mista a raccapriccio: la lucidità e la coerenza del suo “pensar paradossale” mi sono parse ineccepibili; come pure le riflessioni sul pendolo cinese riguardo alle periodiche fortune e altrettanto periodiche disgrazie degli intellettuali e dei sapienti nel corso dei millenni. Con 3 euro e 90 centesimi, neppure il costo di cappuccio e brioche, vi portate a casa un’ora scarsa di vero pensiero critico. Purtroppo, nella disamina della berlusconizzazione della società italiana Perniola scorda il ruolo svolto dall’altro grande tragediatore: il Movimento Cinque Stelle, il solo, unico e inimitabile erede dello stupidario Dada. Come diceva quel tale, che iddio ce la mandi buona. O per lo meno, abbondante.

(Credit: foto di Uliano Lucas)

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