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Allonsanfàn
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La moglie di Tchaikovsky o della follia d’amore

Storia vera. Russia, seconda metà dell’Ottocento, in un’epoca in cui le donne non sono molto più che un nome scritto sul passaporto dei mariti, un’aspirante musicista si innamora perdutamente di un geniale compositore e lo convince a sposarla. Non l’avesse mai fatto.

La moglie di Tchaikovsky racconta l’ambigua – o chiarissima – relazione tra Antonina Ivanovna Miliukova (Alyona Mikhailova) e il grande Pyotr Ilyich (Odin Lund Biron). La donna, contro ogni ragionevole dubbio, spinge il grande musicista assai poco pratico nella realtà a un matrimonio che potrebbe rivelarsi un affare finanziario, visto che è perseguitato dai debiti. Lei, invece, lo sposa per amore, che diverrà amour fou, pur sapendo che Pyotr Illych – glielo hanno detto tutti – guarda solo gli uomini. In ogni modo, lui dà subito di matto, in specie quando si accorge che – per imprevisti errori di calcolo di lei – non riesce a mettersi in tasca granché. Ma si scusa si scusa si scusa…

Il regista Kirill Serebrennikov, che vive in esilio dalla Russia putiniana dopo aver patito persino l’arresto, ha girato un film in primis politico: nel suo Paese non si parla dell’omosessualità  – figuriamoci poi di quella di una gloria  nazionale – e pure la condizione femminile è un tema tabù.

Comunque. L’elemento principale e concreto (quasi marxiano) della trama del film di Serebrennikov è fin da principio il materiale contratto di matrimonio che lega i due protagonisti. È dapprima l’obiettivo per lei, quindi l’ostacolo alla libertà per lui e, infine, l’illusione per lei dell’esistenza di un qualche tipo di legame con l’amato. Il contratto da mero atto burocratico diventa cosa assai salda: è l’appiglio cui si aggrappa l’infelice che non concede il divorzio, e dà il via a una fuga dalla realtà che diventa onirica (folle) – e forse ispira le scene più belle e imaginifiche del film – pur di non capitolare.

La rivelazione del disastro matrimoniale occupa un angosciante episodio ferroviario – tra nobili pettegoli che alzano il sopracciglio, un amplesso mancato in modo frustrante, e la crisi di angoscia di Pyotr Illych – la scena ci rimanda dritti per un attimo negli anni Settanta, a un momento clou di L’altra faccia dell’amore di Ken Russell. Allora, Tchaikovsky era Richard Chamberlain (bellissimo, prima di Uccelli di rovo) e Antonina la spigolosa e aristocratica Glenda Jackson.

Non ricordo quasi niente di quella pellicola peraltro ripescabile su YouTube (scene di massa incredibili da musical impazzito) ma credo di poter notare che Serebrennikov, visionario assai più cauto e profondo dell’un tempo leggendario regista inglese, racconta anch’egli in modo teatrale e con grande uso di simboli la caduta agli inferi dei due mancati amanti. Cioè della mancata amante. Teatrale: Serebennikov ha chiesto addirittura di filmare in ordine cronologico, contro ogni abitudine e pratica cinematografica.

Tornato dietro la macchina da presa dopo film amati da critica e pubblico (Parola di Dio, Summer, bella storia rock in Russia, e Petrov’s flu), Serebennikov conferma una meticolosa cura del dettaglio ancor più sorprendente quando il regista si mette al servizio del delirio della donna rifiutata. A partire dal rapporto crudo e crudele con gli uomini che ha intorno – nudi e violenti fantasmi del mondo maschile – e dal grottesco episodio del funerale, datato 1893, con il defunto compositore che risorge dal catafalco forse solo per dileggiare Antonina Ivanovna.

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