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Allonsanfàn
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Poor Things. Andrà tutto bene, sì ma come? La lezione di Bella

Steampunk, fish-eye, distopico. Ecco, ora che le ho scritte, queste parole totemiche che tutti stanno usando a proposito di Poor Things (Povere creature!) mi sento come una bambina che sciorina di nascosto a mo’ di filastrocca: “cacca-merda-stronzo-cacca-merda”. Per vedere l’effetto che fa, alla Bella Baxter, per intenderci, la protagonista della splendida storia raccontata da Yorgos Lanthimos. Le scrivo subito provocatoriamente, per non doverle usare, ché questo gran film non ne ha assolutamente bisogno, pur nella sua magnificenza, nella sua grandeur, nei meravigliosi abiti disegnati da Holly Waddington.

Questo film non ha bisogno di slogan, di definizioni che rischiano di stargli strette, perché è grande, rivoluzionario, affamato, colorato, visionario, ma con un messaggio in realtà semplicissimo: la nostra vita ha senso solo se lottiamo ogni giorno per difendere la purezza infinita del libero arbitrio da ogni nemico ci si pari davanti. Che questo nemico si travesta da Storia, Amore, Matrimonio, Destino, poco importa. Lanthimos ha tratto Poor Things dal libro omonimo di Alasdair Gray, ambientato nella Londra vittoriana. Eccoci vicino al Tamigi, Victoria (Emma Stone), di blu vestita, sta per suicidarsi. Incinta, si butta nel fiume. La salva un eccentrico scienziato, Godwin Baxter (Willem Dafoe) dedito a esperimenti oltre il confine dell’etica, che per permetterle di rinascere, le impianta il cervello del feto che la donna portava in grembo.

Bella, questo il suo nuovo nome, diventa dunque una bimba nel corpo di una donna: balbetta, si muove goffa, si fa pipì addosso. In God-win she trust: la fanciulla dipende in tutto e per tutto dal suo creatore, che si fa aiutare da un giovane assistente (Ramy Youssef), presto attratto da lei. Godwin progetta di farli sposare, così avrà tutto sotto controllo, anche perché la ragazza manifesta una viva curiosità verso il sesso. The new boy in town, l’estraneo che sempre porta scompiglio, è Ducan Weddenburn (Mark Ruffalo), avvocato incaricato di redigere il contratto di matrimonio. Vede Bella e se la porta via, ma lei è consenziente, anzi, di più. Vuole scoprire il mondo e sotto le lenzuola i due filano d’amore e d’accordo.

La donna inizia un viaggio che la porta a Lisbona, poi in mezzo al mare su una nave crociera, poi ad Alessandria d’Egitto, e infine in un bordello di Parigi. Di pari passo con la spigliata volontà di assecondare il suo corpo, arriva anche quella di nutrire la sua mente. Duncan, da playboy smaliziato, si trasforma in devoto cagnolino, travolto dall’uragano Bella, che chiama il sesso “furioso saltellare” e lo esige quando ne ha voglia, con libertà spiazzante, contro ogni regola della buona società. Bella indomabile, che sgrana gli occhioni in un eterno “Io vorrei andare”. Andare a conoscere, a scoprire, a leggere, a fare all’amore con altri uomini, a disperarsi quando scopre che esiste chi muore di fame e chi litiga, a commuoversi per la voce di una donna che strazia il cuore cantando il Fado. Arrivati a Parigi, Duncan è già sull’orlo di una crisi di nervi, geloso, insicuro, incapace di accettare la libertà delle emozioni di Bella. Il ritorno a Londra, a Godwin, al mito delle origini sarà solo la tappa finale per ribadire a se stessa e agli altri quel che vuole essere: un essere umano libero, madre e figlia di se stessa.

Emma Stone è un’attrice straordinaria e una donna di grande coraggio. Ha accettato quello che potrebbe essere il ruolo della vita, ma che nello stesso tempo non ha nulla di consueto, grazioso, incasellabile. La sua Bella fa  morire dal ridere – sì, Poor Things è un film pieno di viva, luminosa ironia! – fa pensare, commuove e seduce. Se è vero com’è vero che un film è anche figlio dell’epoca in cui nasce, Poor Things è l’anti Perfect Days. Entrambi rappresentano una possibile variante di questo nostro periodo post Covid, questi anni da “Andrà tutto bene”, come da noto slogan. Già, ma tutto bene come? Se Wenders suggerisce un non viaggio solitario nella propria “uncomfortable-comfort zone”, un solipsitico tunnel zen da arredare con buona musica d’antan e ossessivi rituali, Lanthimos ci urla invece di non essere mai sazi, non fermarci, mescolarci al prossimo nostro, spostarci di continuo per disorientare un cecchino implacabile che si chiama rassegnazione. Le povere creature siamo noi, quando per paura di “tempeste, terremoti o la casuale inalazione di semi tossici”, come ammonisce Godwill, scriviamo da soli the end prima del vero the end.

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