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Allonsanfàn
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Baumbach non è Bergman. Ma la pensa come lui in Storia di un matrimonio

Mi è venuto in mente più volte Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman (Bergman, chi era costui?), mentre guardavo su Netflix – e su un tablet – Storia di un matrimonio (Marriage Story) di Noah Baumbach.

Ovviamente, dev’esser venuto in mente più volte anche a lui, a Baumbach, classe 1969, mentre scriveva e poi girava il suo film – Adam Driver, il marito regista in via di divorzio dall’attrice Scarlett Johansson, a un certo punto indica la locandina del capolavoro del maestro svedese. Ossia Baumbach è conscio dell’omaggio e, di sicuro, della distanza tra i due titoli.

In Scene da un matrimonio (1973), girato per la tv, Bergman scopre la serialità, e tratta le “scene” da atti teatrali e quindi da puntate. Dell’opera offre alla fine due versioni, una fluviale e una ridotta, per il cinema, passando da 300 a 167 minuti, ma è più significativa la prima.

Recita Il Mereghetti: “…il racconto è lineare e intenso, il linguaggio è semplice e adatto al piccolo schermo (molti primi piani, pochi movimenti di macchina, prevalenza di dialoghi e totale assenza di colonna sonora)”.

Spiega Sergio Trasatti nella monografia Bergman (Il Castoro): “Scene da un matrimonio è un film di grande verbosità, un lunghissimo, interminabile dialogo a due voci. È la meticolosa radiografia di una coppia… per cercare la risposta:… perché tanti matrimoni falliscono?”

Ingmar Bergman negli anni Sessanta

Ricordavo bene. Scener ur ett äktenskap può persino sembrare un insostenibile (anche per lo spettatore) dialogo tra i due personaggi, perché il Bergman seriale accentua l’espediente drammatico di tenere la scena, e la tensione, sempre oltre il sopportabile – tra l’altro, fa più effetto rivederlo oggi, negli anni e nell’era dei social network, poiché credo che i livelli di attenzione e di tolleranza si siano notevolmente abbassati.

La destinazione televisiva – il piccolo schermo di un televisore che racchiude marito e moglie, non si pensi a modelli al plasma ultra sottili in HD – lascia intendere subito qual è il palcoscenico della lunga pièce, quale la scenografia: sono, senza abbellimenti, il volto e il corpo di Erland Josephson e di Liv Ullmann.

Baumbach pure fa un film di interni, teatrale, girato in pochi ambienti. Ma sceglie un timbro diverso – timbro come risultante di tono e ritmo – quello di una tradizionale commedia sofisticata. Allenta sempre la tensione, presentando come una forma di paradossale normalità le varie stazioni del divorzio, e il divorzio stesso; usa un’ironia sconosciuta a Bergman; adagia i suoi due protagonisti, Adam e Scarlett, in una zona di comfort, fornita di riusciti personaggi di contorno, che attenua lo scontro.

Questo aprirsi a una spettacolarità e a una gradevolezza di racconto rende il film un ammicco hollywoodiano – e non di più – al rigorismo dello svedese. Da cui lo distanzia – non ultimo dei fattori – la sontuosa colonna sonora vintage, orchestrata da Randy Newman. Le parole di Erland e Liv, invece, cadono nel silenzio assoluto, non c’è neanche una nota ad attutirne il rumore.


Erland Josephson e Liv Ullmann

Insomma. Su un ring di pochi pollici, sotto una luce sfibrante, si affrontano Erland e Liv, colpo su colpo. Nella commedia glamour, si accendono solo un paio di scene madri per Adam e Scarlett e, proprio per questo, non le dimenticheremo a lungo.

Paradossalmente, però, entrambi i film possono commuovere (fuori i fazzoletti) e dicono la stessa cosa: i matrimoni finiscono quasi per convenzione, ma in fondo potrebbero non terminare mai, se esiste qualcosa tra i coniugi che anche pallidamente somiglia a un sentimento. Ci si può dire “Buonanotte amore” dopo uno stacco di anni, come accade nel dramma di Bergman; si può con tenerezza allacciare al coniuge una scarpa slacciata, come succede nella commedia di Baumbach.
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