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Morire da soli e il tabù della morte. A Torino Spiritualità il coraggio di parlarne

«Intubato, sofferente e solo come un Cristo in croce. È morto così nostro padre, senza il conforto della mano di una figlia sulla sua, in una sofferenza psicologica disumana». Sono le parole di Maurizia, figlia di Sergio Dalla Volta, 92 anni, cardiologo di fama mondiale, fondatore della Scuola di cardiologia di Padova, morto il 20 agosto dopo essere stato ricoverato per un infarto e messo in isolamento perché positivo al Covid. Maurizia e la sorella Alessandra hanno insieme lanciato un appello affinché l’Italia cambi le regole «e consenta un ultimo saluto a chi è in fin di vita», anche se in terapia intensiva.

La storia del professor Sergio Dalla Volta rientra nelle migliaia di casi di “congedi impossibili” – causati dalla pandemia – di cui si è discusso la settimana scorsa a TorinoSpiritualità.

Torino spiritualità

Ana Cristina Vargas, direttrice della Fondazione Fabretti che da oltre vent’anni si occupa di riflettere sul tema della morte e del morire, è stata chiara. «A partire dalla metà del Novecento la nostra società ha cominciato ad arginare il tema della morte, a evitare di pronunciarne il nome (tant’è che usiamo perifrasi come “è mancato”, “non c’è più”), a confrontarsi con la mortalità con sempre maggiore fatica».

Poi è arrivata la pandemia «che ha costretto a misurarsi con la percezione della propria vulnerabilità. E ci ha messi di fronte a una situazione che mai in passato avevamo vissuto: non poter accompagnare la persona che ci stava lasciando, non poterne celebrare il funerale, con il suo rituale simbolico, di saluto, di commiato».

Una cosa unica nella storia della civiltà umana, ha confermato Guidalberto Bormolini, monaco e tanatologo. «La sepoltura dei cadaveri risale a 100 mila anni prima di Cristo. Una storia lunghissima che si è spezzata nel 2020 quando è improvvisamente scomparso il culto per i nostri defunti. Quando decine di migliaia di persone colpite da Covid sono morte sole. E non hanno avuto funerale».

Anche Bormolini ha chiesto regole diverse: «Nessuno ha il diritto di dirci se possiamo oppure no stare vicino a chi sta male e se ne sta andando. Piuttosto, in questa pandemia, ci devono dire come».

La nostra società, secondo il monaco, «non ha ancora sufficiente consapevolezza di quanto la morte sia il culmine della vita, come è sempre stato in tutte le civiltà del mondo. E di quanto il culto dei defunti sia qualcosa di fondamentale. In moltissimi casi ci si è trovati di fronte a una bara chiusa, senza nemmeno poter vedere la salma del proprio caro. Qualcosa di traumatico che va in contrasto con la realtà umana universale e che ci ha lasciato una ferita che richiederà molto tempo per rimarginare, quando ci sveglieremo da questo incubo».

Nella morte in solitudine, però, può esserci un lato “luminoso”. Giovanni De Luna, storico, l’ha spiegato con un esempio. «Con un’immagine che mi ha suggerito lo scrittore ebraico Shalom Aleichem nel suo romanzo Tornando dalla fiera». È il passo calmo e tranquillo di chi ha finito la sua giornata e torna verso casa ricordando le cose che ha fatto, con chi ha parlato, cosa ha sentito. «Una sorta di bilancio finale molto sereno che arriva dall’appagamento. Finito il frastuono della fiera, c’è un momento di raccoglimento in cui tu sei solo con te stesso e puoi finalmente prendere in considerazione gli aspetti positivi e negativi del tuo percorso biografico. Io ho immaginato che le morti in solitudine possano essere state questo».

Con un però. «C’è un lato oscuro, di sofferenza, che prevale. La maggioranza dei morti da Covid appartengono alla generazione nate negli anni ’30 e ’40» ha detto De Luna. «Una generazione – che è anche la mia – che ha vissuto la solitudine come patologia. Nessuno di noi è mai stato solo nelle cose che ha fatto. Eravamo insieme quando si studiava, si lottava, si faceva l’amore, si mangiava. La dimensione collettiva era esistenziale ancor prima che politica e ideologica. Eravamo all’interno di un “noi” pervasivo e gratificante. La morte in solitudine è stata la negazione di tutto quello che si era stati in vita, quando anche il morire ce lo raffiguravamo insieme agli altri».

C’è luce e c’è buio pure per chi è rimasto. La luce: «Non poter assistere fino alla fine il proprio congiunto è brutale ma costringe a rimodellare i ricordi su di lui, approfondire con se stessi il rapporto che si aveva con chi se ne è andato, fare un esame di coscienza sui più e sui meno di quel rapporto». Il buio, che è superiore: «L’assenza del funerale interrompe l’elaborazione del lutto. Condividere la tristezza, il sorriso mesto di chi partecipa, il ricordo collettivo, aggrapparsi a una narrazione, a un racconto che ti consente di far rivivere in quel momento di addio definitivo chi in quel momento stai salutando è qualcosa a cui non si può rinunciare. La dimensione simbolica del funerale è fondamentale, è quella che racchiude il significato ultimo di quel momento».

Nel film Terra e Libertà di Ken Loach (che racconta la guerra civile spagnola) si celebrano tre funerali. «I primi due sono tipicamente novecenteschi, con tutta la ritualità di quel secolo. Bandiere rosse, pugni chiusi, l’Internazionale: l’“armamentario” ideologico tipico del Novecento lo si ritrova nella dimensione simbolica del funerale che riafferma la forte identità collettiva». Il terzo funerale si celebra molti anni dopo, in una giornata piovosa a Liverpool. «Sono presenti la nipote e quattro o cinque anziani che erano stati commilitoni del morto durante la guerra civile spagnola. È un funerale triste, in cui non si parla, in cui non ci sono simboli. Ma a un certo punto la ragazza che aveva scoperto chi fosse stato il nonno grazie a una valigia piena di ricordi, mentre la bara sta per essere calata nella fossa timidamente stringe il pugno: “Salutiamolo come lui avrebbe voluto essere salutato” dice. E i vecchietti stringono il pugno. Questa dimensione del simbolo che esce in extremis» ha sottolineato Giovanni De Luna «riesce a dare un significato a quello che altrimenti sarebbe stato un puro smaltimento di cadavere».

Ciò che è successo durante la pandemia deve farci riflettere. A partire dall’importanza del recupero, anche culturale, di una dimensione simbolica «che sia in grado di restituirci il rapporto con chi se ne va. Altrimenti il lutto rimarrà interrotto». E il vuoto di un lutto interrotto non si potrà colmare.

Foto in apertura: i camion dell’esercito trasportano fuori città le bare di persone decedute per Covid a Bergamo perché la camera mortuaria del cimitero non è più in grado di accogliere altri feretri. È il 18 marzo 2020.

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