Le ho incontrate l’altro giorno in centro a Milano. Altissime nei chador neri, corpi e volti perfettamente celati, uscivano da un bar pizzeria per turisti che non si interessano di moda né di design; erano seguite da due figure maschili che per la vergogna di appartenere allo stesso sesso non ho avuto il coraggio di guardare negli occhi. Invece il giorno prima il padrone della schiava vestita di nero l’ho osservato un po’ meglio: un uomo di mezz’età, calvizie diffusa, incedere lento nel bel mezzo del marciapiedi a Rapallo, seguito a un paio di metri di distanza da due occhi rinchiusi dalla grata del burka.
Ho un rifiuto fisico dell’Islam radicale. Detesto quel mondo in modo istintivo, automatico, senza possibilità di contenimento né di appello. Le donne infagottate estate e inverno in simulacri di abiti scelti con il solo criterio di trasformare il loro corpo in un cilindro a pianta regolare sono d’abitudine a Milano. I chador e i burka non ancora per il momento.
Lo spettacolo della privazione della libertà – l’esibizione della riduzione in schiavitù di un essere umano – mi è divenuto intollerabile. Eppure so bene che il Mondo Antico si reggeva sulla schiavitù. Affinché Platone potesse pensare, c’era bisogno del lavoro coatto di migliaia (milioni in epoca romana) di schiavi nei campi e nelle miniere; tuttavia quello che chiamiamo “Mondo Antico” in alcune fortunate regioni ha faticosamente e assai dolorosamente lasciato il posto alla cosa che definiamo “modernità”. Per quanto vasto sia l’orizzonte dei significati che le si attribuisce, non può mai essere confusa con nessun regime di sottomissione. Modernità e libertà, modernità e trasformazione del suddito in cittadino, sono coppie indisgiungibili.
Sempre in questi giorni ho letto una recensione sulla nuova edizione Bompiani di Histoire d’O (in libreria da settembre), romanzo di Dominique Aury pubblicato nel 1954 con lo pseudonimo di Pauline Réage. L’autrice confessò solamente nel 1994 di averlo dato alle stampe su insistenza del suo amante, grande estimatore del Marchese de Sade. Dettaglio aggiunto non per far pettegolezzo (chissene delle motivazioni della signora Aury) bensì di qualche utilità al ragionamento. La storia di O è come tutti sanno un racconto assai ben scritto di sottomissione, misticismo sado-maso, annichilimento di sé. Letto come lo lessi da ragazzo, mi procurò più di un turbamento; detta spiccia, la tesi del recensore sostiene che la scelta di O per quanto apparentemente inverosimile possa essere interpretata come la scelta “libera” del masochista, ovvero il soggetto (allora non lo sapevo) che nella coppia dicono sia colui che conduce il gioco. Con tutti i condizionali e le precauzioni d’obbligo, se questa tesi è giusta la vittima gode della sua condizione di oggetto posseduto e, subendo il dominio, tesse la tela relazionale che cattura e poi imprigiona l’altro. Un rovesciamento di prospettiva più avventuroso di un passaggio di sesto acuto senza corde di sicurezza.
Ma ammesso e non concesso, che c’entra il libertinaggio libertario allegro e sporcaccione (anche quando allegro non lo è affatto come nel caso di O, romanzo che più mortifero non si può) con il Medioevo islamico? È davvero possibile pensare senza arrossire che le donne incontrate nel centro di Milano abbiano scelto liberamente la loro condizione? Non mi riferisco alle viaggiatrici elegantemente velate che, per nostra fortuna, sono ritornate a fare la spesa nel quadrilatero della moda scortate da voraci pulmini Mercedes, e neppure alle sbarbine che qui nel mondo Occidentale del velo sul capo hanno fatto segno d’identità se non di ribellione; in entrambe, nelle signore arabe e nelle ragazzine metropolitane, traspare un allure consapevole e civettuola, l’esatto contrario di ciò che emanano i chador neri nella fornace padana.
Domani finalmente andrò in vacanza in un luogo dove sono certo non incontrerò chador e neppure teste velate. Non mi abbandoneranno però le immagini che in questi giorni riempiono i nostri occhi e le nostri menti: diverse e pur sempre uguali ci accompagneranno per un numero incalcolabile di anni. Tony Blair, il mentitore seriale, ha ragione da vendere quando afferma che dovremo combattere il terrorismo islamico con la stessa tenacia sistemica con cui le democrazie occidentali si sono contrapposte al dispotismo sovietico. Ci sono voluti 70 anni, ma alla fine si è schiantato come un albero marcio. La verità inconfessabile a noi stessi prim’ancora che ai nostri nemici è che non amiamo la guerra. Ci piacciono i film sparatutto e gli ammazzamenti dei giochi di ruolo. Ma sono guerre per finta. Noi amiamo fare l’amore – in ogni modo, assetto e composizione – molto più che fare la guerra. Come sostiene Ezio Mauro, l’Occidente non è un impero: è una civiltà. Un modo di vivere e di amare la vita. Da che mondo è mondo, da colazione da Tiffany in poi, il nero che amiamo è quello di Chanel.
credit foto in apertura: “Burka girl” by janjochemo is licensed under CC BY-NC-ND 2.0