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Allonsanfàn
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Inventing Anna su Netflix. Julia Garner vera truffatrice nella falsa New York

In principio c’è Shonda Rhimes, la donna dietro la serie Grey’s Anatomy, che inaugura il regno di storie detto Shondaland. Poi, c’è l’esclusiva del 2017 che Rhimes firma con Netflix: contratto tra pesi massimi, ha già prodotto Bridgerton (2020) e porta adesso nei nostri streaming la miniserie Inventing Anna, resa disponibile l’11 febbraio e già entrata, per dirla come direbbe la gente che la popola, nei cult più cool del genere.

Ispirata alla storia vera di Anna Sorokin Delvey e all’articolo del New York magazine di Jessica Pressler che ne narra l’incredibile truffa (How Anna Delvey Tricked New York’s Party People), Inventing Anna è un passo a due – con coinvolgimento dell’élite di New York e di un personaggio, in genere turlupinato, a episodio – tra Julia Garner qui nei panni haute couture del carachter del titolo e Anna Chlumsky, veterana di Veep (HBO), negli abiti più dimessi della giornalista Vivian Kent che della prima ricostruisce gesta, party, post e selfie malandrini – e ci scappa da scrivere questa nota mezzo in inglese perché siamo in quell’ambiente tante volte finito in serial e qui volutamente portato allo stereotipo (come l’avvocato pelato alle prese con lo squash) che respira meglio se vive in piena esteriorità neanche fosse generato per strisciare credit card ed espandersi sui social.

Il punto: non credo interessi stabilire che cosa è vero e cosa no nell’ascesa sociale di una venticinquenne falsa ereditiera di dubbia origine tedesca – con i milioni bloccati chissà dove e chissà come mai laggiù in Germania – la quale heiress è svelta ad appiccicarsi a una schiera glamour di vip, celebs e socialites, e capace di scroccar loro dollaro su dollaro per vivere alla grande e sognare il varo di una opulenta e spettacolare fondazione d’arte.

È essenziale invece stabilire perché anche noi spettatori “crediamo” per nove puntate al broncetto buffo di Anna-Julia Garner, sprezzante e antipatica variante di influencer determinata a essere qualcuno, e trattiamo poi con qualche sufficienza Vivian-Anna Chlumsky oltretutto incinta che la intervista in carcere intanto che, fuori, fa un’inchiesta su di lei.

La risposta è più che scontata e attiene al meraviglioso mondo di Shondaland. Anna Sorokin Delvey è il sogno, l’azzardo, la follia – l’incarnazione di una sfacciata diavolessa o superbrat che veste Prada e pure di meglio e che lo spettatore si divertirà ad amare o a odiare senza mezzi termini – mentre l’inchiestista è soltanto “nuda realtà”, quasi un cliché residuato dal pauperistico cinema civile.

Variazioni sul meme dell’amicizia

Detto ciò, è implicita la sofisticata fattura di questo nuovo prodotto griffato Rhimes. Per fare un esempio concreto, senza spoilerare nulla di essenziale, prendiamo l’episodio numero cinque. Il truffato cui è dedicata la puntata è la concierge del mega residence newyorchese dove Anna per qualche tempo risiede, una ragazza nera che sogna di fare un film e che, sedotta di mancia in mancia, rimane impigliata nei riti mondani e negli shopping di Anna (e poi nel dramma delle cards di lei misteriosamente, si fa per dire, bloccate).

Il tema dell’episodio è quello ricorrente nella miniserie dell’amicizia che qui sembra insinuarsi nei rapporti di convenienza tra padrone e serva e diventare a sorpresa un vero contatto tra le due (pure Anna ogni tanto mostra un cuore) prima di venir tradita e recuperata nei cinici maneggi dell’ereditiera.

Lo stesso tema amicale echeggia parallelo nella peripezia della giornalista detective che non viene protetta dal suo capo durante un ingiusto attacco mediatico – capo che era l’antico sodale per cui Vivian aveva rinunciato in passato a lavori prestigiosi.

Di più: per continuare con le variazioni sul tema abilmente orchestrate nella medesima puntata, si affronta il problema della stampa corrotta dal glitter del lusso attraverso un’altra amica-non amica di Anna, la photo editor di Vanity Fair Rachel Williams – truffata insieme a Condé Nast in un soggiorno a Marrakech si vendicherà nel best seller My Friend Anna: The true story of the fake heiress of New York City – mentre Anna carcerata scazza con Vivian che si è scordata di portarle al colloquio le promesse riviste di moda… Applausi a chi ha scritto, composto e shakerato il cocktail.

Ma gli applausi si spegnerebbero presto se non ci fosse un’icona da lanciare sul mercato visivo. E questa icona è appunto Julia Garner, già premio Emmy per Ozark, dove era la piccola redneck che poteva morire ma non arrendersi nella scalata verso il fottuto benessere negato agli sfigati di nascita. Julia Garner, incantevole folletto e ragazzetta travestita da first lady, impeccabile dalla punta dei capelli del trucco e parrucco alle dita dei piedi calzati da Bergdorf Goodman, non sbaglia uno sguardo, un ammicco, una battuta recitata in quel nasale, accattivante borbottio, che tradisce l’incredulità per la bassezza del mondo degli altri e la stizza di chi spera ma già sa che non arriverà nel Paradiso farlocco – questo sì farlocco, altro che lei – dei vip veri di New York. Lei che è vip soltanto nello streaming di Shondaland/Netflix (a proposito, l’ottava puntata piuttosto edificante dove si ricostruiscono in un grigio viaggio europeo le origini di Anna e i motivi per cui è diventata proprio così si può vedere col fast forward innestato; e si può scorrere veloce anche la nona e ultima che chiude in chiave buonista come se non fosse stato possibile fare un passo più in là o almeno un po’ a lato).

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