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Allonsanfàn
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Euphoria, Levinson & Zendaya. La difficile terza stagione

Euphoria è stata la seconda serie più vista di HBO dopo Il Trono di Spade, ma la terza stagione potrebbe arrivare (chissà) nel 2023 e 2024, perché Sam Levinson, lo showrunner e factotum, vuole e deve aspettare Zendaya bloccata nel blockbuster Dune 2.

Anche se rischia di danneggiare la credibilità degli attori protagonisti, troppo grandi per impersonare studenti, l’attesa potrebbe portare saggi consigli a Levinson che nel secondo round si è comportato (e be’, diciamolo) come un pittore che getta secchiate di vernice sui muri. O un musicista che alza il fuzz box al massimo, mandando il suono in overdrive.

Levinson si è fidato ciecamente del suo touch, qui dedicato con spirito certosino a sviscerare il tema principe della serie, cioè il difficile equilibrio tra amore, sesso e giovinezza in un gruppo di liceali i quali vivono ai tempi del politically correct la sempiterna fatica di crescere.

Ma qual è questo touch? In un momento clou della prima stagione, Zendaya-Rue aveva mormorato qualcosa di sacrosanto: “La vita non è un romanzo di Nicholas Sparks”. Battuta ammiccante scritta dallo stesso Levinson, il quale però, al pari di Sparks, è un maestro di artificio (non zuccheroso, però) e ne possiede una scafata consapevolezza: ha creato per Euphoria un mondo assolutamente “falso”, in quanto fiction – e in quanto fiction molto cool – quasi irridente nella forma ogni parvenza di narrazione neorealistica.

Scegliendo colori emotivi e innaturali, grattugiando scaglie di strutturati corti in un mondo teatrale esplosivo ed esploso con imitazione di camere a mano quasi cassavetesiane, Levinson ha alternato momenti intimi alla Malcolm&Marie (il suo film per Netflix) o allo speciale di serie dedicato a Rue, a un barocco iperrealismo onirico nelle lunghe scene di massa, a partire dal Capodanno del primo episodio della seconda stagione, ma…

Ma il regista-showrunner ha trascurato la storia, le storie, che alla distanza sono uscite prevedibili e sfilacciate, danneggiate dalle interminabili puntate/scene madri – la scoperta dolorosa della dipendenza di Rue, il coming out furente del padre di Nate, la disperazione fuori controllo pure per degli standard clinici di Cassie, i dubbi intellettuali di Lexi inseriti nello stucchevole “film nel film”, che più che un riepilogo è parso una sfibrante citazione dal metacinema di cent’anni fa.

Il tutto aperto e chiuso troppo schematicamente dalla scorribanda nei bassifondi dello spaccio, protagonisti Fez e il mini socio Ash, richiamata sette puntate dopo da un concerto per raffiche di mitra. Ossia: la tensione narrativa generale, sofferente per le poche sorprese e per la  stanchezza di vicende tirate in lungo, è finita ingoiata dalla forza o dalla debolezza dei singoli episodi.

Da dove ripartirà Sam Levinson? Dalla “guarigione” di Zendaya e dai più trascurati nella serie che quest’anno sono stati Jules (ma perché?) e Kat (ferma dopo la liquidazione del fidanzato)? La saga di Nate sembra arrivata sentimentalmente ed edipicamente (speriamo) al punto morto, mentre Lexi aspetta nuove avventure e la riapparizione di Fez è un grosso punto interrogativo…

Fidiamoci di Zendaya, che a proposito di Rue e compagnia cantante nel trailer d’acchiappo per la Season 2, ripeteva: “When you’re younger, everything feels so permanent. But as you get older, you begin to realize nothing is and everyone you love could drift away”. Difficile azzeccare previsioni, tutto può cambiare in un secondo.

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