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Allonsanfàn
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Che cosa c’entra il pazzo di Anima persa col santino di Aldo Moro?

Anni Sessanta. L’orfano Tino va a dare la maturità a Torino ed è ospitato nella villa dei Calandra, accudito da zia Galla e zio Serafino, spettabile ingegnere cui è toccato in sorte un gemello malato, detto il Professore.

Costui, preda della follia, sta rinchiuso in una stanza, dove è dedito al delirio di pratiche nominabili – filma insetti con una cinepresa – e innominabili – basti dire che Serafino stesso, connivente la zia, conduce dal fratello una volta la settimana la prostituta Iris… È più che ovvio che lo zio e il suo doppio sono uno e bino proprio come il dottor Jekyll e il signor Hyde.

Et voilà: riambientate Un’anima persa, il romanzo di Giovanni Arpino (prima edizione per Mondadori, 1966) a Venezia, vestite da zio impeccabile il mattatore Vittorio Gassman, cui naturalmente, smesso il tabarro, spetta pure la seconda parte, quella del gemello disperatamente deragliato: osservato dallo spioncino della soffitta, terrorizza noi e Tino facendo la lingua a trifoglio, gli occhi matti e urlando parole senza senso.

Poiché il film è girato nei più arditi anni Settanta (esattamente nel 1977), Dino Risi ha dato un giro di manovella in più alla sua Anima persa e ha incatenato in un terrificante pasticcio edipico gli zii della trasposizione, che si chiamano Fabio ed Elisa (lei è una smisurata Catherine Deneuve).

Abbiamo comunque al centro decentrato del plot, cioè nella camera chiusa, un uomo pazzo ma in realtà savio ma in realtà pazzo ma in realtà savio ma in realtà pazzo e così ad libitum. Si fa a questo punto essenziale il motivo dell’altalena di stati d’alterazione in un personaggio che sembra aver patito uno sprofondo nietzschiano. Possiamo azzardare che lo zio sia stato schiantato dalla logica crudele di una vita cui non può pienamente accordarsi dopo averne visto il male (versione Arpino) oppure che sia malauguratamente legato a un impossibile e non perseguibile amore e ideale di infantile purezza (versione Risi).

A noi importa di più che il cartellone del film Anima persa compaia, come un piccolo indizio o un suggerimento di senso, sulla facciata di un cinema durante una scena di scontri urbani nella prima parte di Esterno notte, il saggio cinematografico in forma di serie tv che Marco Bellocchio ha dedicato ad Aldo Moro. È una citazione di pochi secondi ma apre una discussione che può durare da qui all’infinito, soprattutto se decidessimo di prendere una pista psicoanalitica fagiolina, legata cioè a Massimo Fagioli, terapeuta e ispiratore di tanto cinema di Bellocchio.

Comunque. Che cosa vuol dirci il regista piacentino? È forse Aldo Moro, imprigionato in un tramezzo nell’appartamento di via Montalcini, accostabile al Jekyll e Hyde chiuso in soffitta (o autorecluso) di Arpino e Risi? O almeno un poco gli assomiglia? È un uomo savio, o rinsavito, che, dopo aver vissuto e capito tutto dell’irrisolvibile mistero della politica, cerca in modo straziante una via di salvezza e fuga per se stesso oppure è un pazzo che delira andando vieppiù alla deriva. O è tutt’e due le cose insieme?

Le suggestioni aperte dalla citazione di Anima persa fanno subito pensare – per l’accento che batte sulla follia – alle famose lettere dalla prigione di Aldo Moro e alla loro sconsiderata ricezione da parte dei colleghi di partito – i veri assassini, secondo una nota e semplificatoria vulgata nata da qualche parte a sinistra.

Ci limitiamo a rimanere in campo psicologico anche se in termini assai meno sofisticati di quelli fagiolini. Ovvero: non sembra un caso che il dramma e forse il collasso della DC – il gemello supposto buono sia nel romanzo sia nel film – si evidenzi proprio quando comincia a non capire o a non tenere più il passo del gemello “visionario”, quando cioè lo proclama altro da sé, di fatto disconoscendolo. Proprio il disconoscimento si configura come un omicidio/suicidio, una mossa che porta al doppio disastro.

Fabrizio Gifuni in Esterno notte

È palese che qui non stiamo parlando del Moro reale, ma del Moro visto e narrato da Bellocchio, lo “statista” (virgolette nostre) a un tempo forte e mite che diviene un uomo solo, solissimo, e per la cui sorte in un drammatico crocevia passa tutta la storia d’Italia di fine Novecento; il Moro che forse vede la politica come un rovello non così ineludibile da non poter contemplare una apparentemente dissennata ma invece dignitosa resa; il Moro pacificato forse solo nel dormire accanto al nipotino Luca (è sicuramente la scena più fagiolina della serie). Ma ognuno, in una ormai lunga democrazia filmica, ha oggi il suo Aldo Moro personale e spesso, come accade per certi versi alla ispirata coppia Bellocchio/Fabrizio Gifuni, il proprio personale santino di Aldo Moro. Bellocchio poi è addirittura recidivo, considerando l’ispido e raziocinante Moro/Roberto Herlizka nell’autorale Buongiorno, notte (2003).

Questo, però, è un altro discorso. Viene ora voglia di rileggere L’affaire Moro di Leonardo Sciascia (Sellerio, 1978) che contiene un’esegesi funambolica delle lettere dal carcere BR, vergate da un uomo lucidissimo, forse mai così lucido, anche se posto sotto un conclamato “dominio pieno e incontrollato”. E viene voglia di riaffrontare singolarmente, indipendentemente dalla citazione di Bellocchio, le due Anime perse, il romanzo e il film. Sono inquietanti e generosi reperti dei Sessanta/Settanta (e di quando mai, se no?).

Nella foto di apertura, Gassman pazzo in Anima persa

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