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Allonsanfàn
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Il cronista e l’altra faccia del calcio. Un ricordo di Antonio De Falchi

Faceva caldo a Roma quel 4 giugno 1989 di un campionato che sarebbe finito addirittura quattro settimane più tardi, nell’ultima domenica del mese. Con la troupe che avrebbe ripreso la partita (allora non c’erano le tv a pagamento e ogni emittente si arrangiava come poteva) raggiungiamo lo stadio Olimpico, dov’è in programma Lazio-Inter, che la squadra di Trapattoni avrebbe vinto 3 a 1 sulla via dello scudetto dei record.

Al botteghino non risulta nessun accredito intestato a Tele Capodistria, l’emittente slovena controllata dalla Fininvest di Berlusconi che trasmette Atuttocampo, la trasmissione condotta da Gigi Garanzini. “La vostra segreteria si è dimenticata di richiederci l’accredito, mi dispiace ma non potete entrare” è la sentenza inappellabile che mi comunica lo steward della Lazio.

Dire che sono incavolato è un eufemismo, perché non è la prima volta che accade, siamo ancora semi clandestini e qualche società non ci vede di buon occhio. All’epoca non esistevano i cellulari quindi, vista l’inflessibilità dell’uomo al botteghino che si rifiuta di chiamare l’addetto stampa, decidiamo di rientrare in sede. Appena entro al Centro Palatino, mi tuffo sul telefono e chiamo Paolo Ziliani, il responsabile della redazione calcio, spiegandogli l’accaduto e mettendoci il carico da 11: “Siamo dei dilettanti allo sbaraglio” gli dico. “La segreteria deve svegliarsi!”. E lui per tutta risposta: “Meglio così, Daniele: pare abbiano ucciso un tifoso romanista fuori dello stadio di San Siro prima di Milan-Roma”.

Fatico a capire il “meglio così”, ma lo comprendo subito dopo. “Meglio che siate rientrati” dice Ziliani “perché abbiamo il nome del ragazzo: si chiamava Antonio De Falchi, aveva 19 anni e abbiamo anche l’indirizzo preciso, pubblicato dall’Ansa. Abitava in viale dei Romanisti (neanche farlo apposta, ndr), prova ad andarci e vedi se riesci a tirare fuori qualcosa, riprendi gli esterni della casa, vedi tu, va bene tutto. Poi quando rientri ci sentiamo e decidiamo il da farsi”.

Era l’ultima cosa che avrei voluto fare: andare a casa di un romanista ammazzato da tifosi milanisti. E noi siamo la Tv di Berlusconi, cioè del Milan. Ce n’è abbastanza per essere un tantino preoccupati. Guardo il mio operatore, che per uno strano scherzo del destino si chiama Bruno Conti, proprio come il giocatore della Roma. “Bruno” gli dico “non mi sembra il caso di andare con l’auto di servizio con il marchio Fininvest (Mediaset sarebbe nata soltanto alla fine del 1993) in via dei Romanisti. Rischiamo di passare dei guai seri. Chiamiamo un taxi e ce lo teniamo fino al ritorno, che ne dici?”. “Mi sembra una buona idea” è la risposta di Bruno.

Arriviamo a via dei Romanisti a Torre Maura, un quartiere popolare a est di Roma, e non appena scendiamo dal taxi un ragazzo vede la telecamera (dalla quale avevamo naturalmente tolto ogni marchio Fininvest) e ci indica un palazzone: “Lì abitava Antonio”.

Antonio De Falchi

Sul citofono troviamo il nome De Falchi. Mi chiedo se sia il caso di suonare e alla fine decido: premo il pulsante e dopo pochi secondi mi risponde una voce femminile: “Signora, ci scusi, siamo della televisione (rimango volutamente sul vago), possiamo salire?”. Un attimo di silenzio che sembra interminabile, dentro di me spero che mi mandi a quel paese. Invece, con mia grande sorpresa, ci invita a salire all’ottavo piano.

“Bruno” dico all’operatore “la telecamera rimane spenta e la accendi solo quando te lo dico io”.

Busso alla porta, mi apre una donna abbastanza giovane, probabilmente una sorella, Antonio era l’ultimo di otto fratelli. La prima immagine che mi trovo di fronte è quella della mamma che piange e si pianta le unghie sul volto. Resto paralizzato, non so cosa fare, l’operatore ha la telecamera spenta, come gli avevo raccomandato. Nessuno ci chiede di che televisione siamo. Nel soggiorno siamo gli unici estranei.

A togliermi dall’imbarazzo arriva un ragazzo che si presenta come il fratello. “Venite” mi dice. “Vi faccio vedere la stanza di Antonio”. È la camera di un giovane tifoso, piena di poster dei suoi idoli: Voeller, Giannini, Nela. Ci sono sciarpe giallorosse, bandiere, un paio di magliette della Roma. “Possiamo riprendere?” gli chiedo. “Certo” è la risposta. E poi aggiunge: “Antonio era un ragazzo tranquillo, non andava allo stadio per fare a botte, ma solo per fare il tifo per la Roma. Guarda, questa era la sua cintura: l’aveva lasciata a casa perché aveva una fibbia molto grossa e non voleva passare i guai durante i controlli all’ingresso dello stadio”.

Poi mi guida verso una finestra nel corridoio, la apre, mi addita un cippo laggiù in mezzo all’erba. “Ecco, quella pietra che vedi è il punto in cui si è suicidato mio padre gettandosi da qui”. Rabbrividisco, non so cosa dire, e intanto l’operatore riprende tutto, comprese le parole del fratello. Che poi aggiunge: “Antonio era un ragazzo buono, non meritava di fare questa fine. Finché avrò vita farò di tutto perché non venga dimenticato. Ma soprattutto andrò a cercare quegli infami che l’hanno ucciso e gliela farò pagare, te lo giuro”. Rimango di sasso e annuisco.

Torniamo nel soggiorno, dove la madre continua a piangere e a straziarsi il volto. Nel frattempo è arrivata una troupe della Rai, che sta riprendendo tutta la scena, e a quel punto faccio segno al mio operatore di accendere la nostra telecamera. Ce ne andiamo, io sono molto scosso da quello che ho visto e sentito, ora si tratta di tradurlo in un servizio.

Quando rientro in sede chiamo Ziliani e gli racconto tutto quello che abbiamo raccolto. Paolo non ci crede, rimane sorpreso, non si aspettava che avessi portato a casa tutta quella roba. “Bravissimo Daniele” mi dice. “Ottimo lavoro. Ora monta il servizio con calma, tanto c’è tempo, decidi tu la durata, sarà l’apertura di Atuttocampo alle 20 e 30”.

Ancora emozionato per quello che avevo vissuto, scrivo il testo, scelgo le immagini, apro con le lacrime della mamma di Antonio, la cameretta, la finestra del suicidio. Ma al momento di inserire le parole del fratello mi viene uno scrupolo di coscienza: sarà il caso di far sentire proprio tutto, compresi i propositi di vendetta? Propendo per il no, ne parlo con Ziliani che concorda con me. Mi fermo al punto il cui il fratello dice: “Finché avrò vita, farò di tutto perché non venga dimenticato”.

L’autopsia chiarirà che Antonio De Falchi non è morto in conseguenza diretta dell’aggressione da parte dei tifosi milanisti, ma per un arresto cardiaco favorito da una malformazione. Versione che i familiari non accetteranno mai. Antonio fu picchiato e il suo corpo recava i segni evidenti delle percosse, ma secondo il medico legale morì di paura.

Il lunedì mattina i quotidiani parlavano diffusamente dei servizi televisivi andati in onda la sera prima. Mi colpì il commento della Gazzetta dello Sport: “Fra i tanti servizi visti in tv, il migliore per qualità e sensibilità è stato senza dubbio quello di Daniele Garbo. Molto toccante la testimonianza del fratello di De Falchi quando dice che finché avrà vita farà di tutto perché Antonio non venga dimenticato”.

Ho capito in quel momento di aver fatto la scelta giusta censurando quelle dichiarazioni. Forse non ho fatto fino in fondo il mio mestiere, ma l’ho fatto a fin di bene, per non alimentare la spirale di odio. Certo, se i colleghi della Gazzetta avessero saputo la verità…

Un paio di giorni dopo mi toccò documentare anche il funerale di Antonio con la bara accompagnata da una gran folla dalla casa di viale dei Romanisti fino alla chiesa. La tensione si taglia col coltello, i tifosi romanisti urlanti incitano alla vendetta contro i milanisti. Uno di loro con la sciarpa giallorossa mi riconosce, si avvicina, per un attimo temo che si metta male. Invece questo ragazzo mi sorprende: “Grazie” mi dice. “L’altra sera ho visto il tuo servizio su Antonio e mi hai fatto piangere”.

Credit foto in apertura: “Goal?” by Corscri Daje Tutti! [Cristiano Corsini] is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.

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