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Allonsanfàn
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Parlando di calcio in Libia, a casa di Gheddafi

Cosa ci faccio a casa di Mu‘ammar Gheddafi il 26 giugno 1999? Bella domanda: sto per intervistare Saadi, il terzo degli otto figli del colonnello che verrà ucciso il 20 ottobre 2011 a Sirte, non lontano da dove mi trovo, nel corso della guerra civile che portò alla sua deposizione. Fuggito in Niger il 6 ottobre 2014, Saadi viene estradato in Libia e attualmente è detenuto nel carcere di Tripoli, accusato di aver ucciso nel 2006 il calciatore Bashir al-Riani (è stato scarcerato nel settembre 2021, dopo 7 anni di detenzione, su ordine del tribunale di Tripoli, fonte Wiki)

Ma facciamo un passo indietro: ai primi di giugno del 1999 mi arriva una telefonata in redazione: “Buongiorno, signor Garbo, mi chiamo Massimo X e le telefono per conto del governo libico. Ho da proporle una cosa che probabilmente le può interessare: offriamo ospitalità completa in Libia a lei e a una troupe composta da operatore e specializzato per un’intervista esclusiva a Gabriel Batistuta (allora attaccante della Fiorentina, sarebbe arrivato alla Roma un anno dopo per trascinarla allo scudetto nel 2001). Batistuta sarà ospite di Saadi Gheddafi e voi sarete l’unica televisione italiana presente all’incontro”.

Saadi era conosciuto in Italia per un’operazione senza precedenti: in pratica offrì al Perugia (dove fu messo sotto contratto per due anni, dal 2003 al 2005) un bel po’ di petrodollari per essere tesserato e allenarsi con la squadra umbra. Serse Cosmi, che sedeva sulla panchina dei grifoni, mi raccontò che i giocatori non ne volevano sapere di averlo tra i piedi. Ma cambiarono rapidamente atteggiamento quando il presidente Luciano Gaucci disse loro (più o meno): “Dovete sapere che questo paga una buona parte dei vostri stipendi, quindi vi consiglio di non fare gli schizzinosi, come non lo faccio io”.

Luciano Gaucci con lo juventino Ravanelli nel 1993

Saadi fu così accettato, obtorto collo, dal gruppo, diventando ben presto grande protagonista delle notti perugine, alloggiando all’Hotel Brufani, il più lussuoso della città, all’inizio di Corso Vannucci, e circondandosi di fanciulle simpatiche e disponibili.

Giocò una sola partita, che comunque gli consentì di diventare il primo e unico calciatore libico a debuttare in serie A, guarda caso contro la Juventus. Un’avversaria speciale, visto che all’epoca papà Mu‘ammar era un importante azionista della Fiat attraverso la Lafico, la finanziaria di stato della Libia, presente anche nel capitale dell’Eni.

Poi il giovane Gheddafi passò all’Udinese per una stagione e concluse la sua dimenticabile carriera nel calcio italiano senza mai indossare la maglia della Sampdoria, che lo tesserò nella stagione 2006/2007.

Seppi poi che fu lui stesso a chiedere di contattarmi, perché quando era in Italia vedeva i miei servizi su Controcampo.

Ma torniamo alla telefonata di Massimo: lo ringrazio per l’offerta e gli prometto una risposta in tempi brevi, dopo aver parlato con il mio direttore. Cosa che faccio il giorno stesso, prospettandogli la situazione: campionato finito, nessuna spesa per l’azienda e la possibilità di essere tra i primi occidentali a rimettere piede in Libia, un paio di mesi dopo la fine dell’embargo internazionale, proclamato in seguito alla strage di Lockerbie e terminato dopo la consegna da parte di Gheddafi dei colpevoli. Il Boeing 747, volo Pan Am 103 diretto a New York, esplose sul cielo della Scozia il 21 dicembre 1988 provocando 270 morti, a causa di una bomba piazzata dal terrorista Abd el-Basset Ali al-Megrahi, funzionario dell’intelligence libica e responsabile della sicurezza della Lybian Airways, su mandato del governo di Tripoli.

Il direttore autorizza subito la trasferta in Libia e a quel punto richiamo Massimo comunicandogli l’adesione della Fininvest (Mediaset non esisteva ancora) e dandogli i nomi dei due tecnici. Ci rechiamo all’ambasciata libica di Roma per i visti, che naturalmente vengono rilasciati senza problemi. Avevamo le spalle piuttosto coperte.

L’appuntamento per la partenza è fissato il 25 giugno all’aeroporto di Fiumicino. Finalmente conosco Massimo, un ragazzo simpatico e aperto. Mi aspetto di incontrare Batistuta, che ho intervistato più di una volta a Firenze, ma Massimo mi spiega che Gabriel ci raggiungerà con un volo privato. Al suo posto c’è invece un imballo di legno piuttosto voluminoso, che il nostro amico trascina con molta attenzione. Gli chiedo di cosa si tratti e mi spiega che è una testa di cavallo di vetro di Murano, un oggetto prezioso del valore di qualche milione di lire, regalo di Batistuta al padrone di casa Saadi Gheddafi.

Scopro ben presto di non essere l’unico giornalista presente: con noi viaggia un collega libico che parla un ottimo italiano. Lavora a Orbit Tv, un’emittente araba con sede ad Avezzano. Con lui un operatore e uno specializzato arrivati da Milano.

Ma non è finita, ci sono altri due italiani: un piastrellista e un tappezziere. Vengono in Libia per allestire l’appartamento privato di Mu‘ammar Gheddafi all’aeroporto di Tripoli.

Finalmente si parte con un volo della Lybian Airways, un aereo che per via dell’embargo è stato fermo per molti anni. Ce ne accorgiamo appena saliamo a bordo, dove veniamo accolti da un inconfondibile odore di muffa e dalla sensazione di polvere tolta in fretta e furia poche ore prima. Ci auguriamo che la manutenzione sia stata più accurata della pulizia.

Atterriamo a Tripoli nel pomeriggio, veniamo presi in consegna da un paio di funzionari governativi che ci fanno varcare la dogana in brevissimo tempo, giusto uno sguardo ai passaporti e via.

Veniamo imbarcati su tre Mercedes nere blindate con i vetri oscurati, che sfrecciano a velocità esagerata (scorgo il tachimetro sui 180 kmh) sulla superstrada che collega l’aeroporto a quello che sarà il nostro albergo, l’hotel Al Mahari (oggi Radisson Blu), il migliore di Tripoli. In pochi minuti divoriamo i 30 chilometri del percorso, infilando come schegge tutti gli incroci, compresi i semafori rossi.

Comincio ad avvertire una leggera inquietudine, guardo il mio operatore e ci scambiamo uno sguardo pieno di interrogativi che non osiamo tradurre in parole. Perché è chiaro che il nostro autista, elegantissimo in abito blu e cravatta perfettamente intonata, è un uomo super addestrato dei servizi segreti libici e sicuramente capisce l’italiano.

Gabriel Batistuta alla Fiorentina

Finalmente arriviamo in albergo, dove veniamo accolti da un signore che si presenta come il presidente del Comitato Olimpico Libico e da un altro che afferma di essere il presidente dei giornalisti sportivi libici. Ci danno il benvenuto, ci offrono da bere e poi ci invitano a riposarci oppure a uscire a fare due passi. Saliamo in camera, lasciamo i bagagli e scopro che il mio cellulare aziendale ha campo pieno, ma in realtà non funziona. Il motivo è molto semplice: non esiste ancora l’accordo tra l’operatore di telefonia italiano e quello libico per il roaming.

Decido allora di chiamare in redazione dal fisso della stanza, parlo con il capo redattore per dirgli che siamo arrivati a Tripoli, ma nei giorni successivi comunicare non sarà semplicissimo, dato che il telefonino (il Nec P4 era un bel mattone di circa mezzo chilo) può servire al massimo come strumento di difesa personale, ma non per lo scopo per cui è stato costruito.

Con l’operatore e lo specializzato decidiamo di farci una camminata verso la vicina Piazza Verde, teatro delle adunate oceaniche durante il colpo di stato di Gheddafi del 1969. Passiamo davanti all’ambasciata italiana e in pochi minuti raggiungiamo il centro della città, visitiamo il suk senza trovarvi nulla di particolarmente interessante. Ci prendiamo un thè alla menta e torniamo in albergo.

Chiamo Massimo per conoscere i programmi, per sapere quando e dove faremo l’intervista a Batistuta, del quale, per inciso, non c’è traccia. Ma la risposta è vaga: “Attendiamo disposizioni”.

Mentre attendiamo disposizioni, arriva l’ora di cena e ci informano che possiamo andare al ristorante e prendere quello che vogliamo, basta dare il numero della stanza. Siamo al dessert, sto per addentare una fetta di ananas, quando si presenta tutto trafelato quello che sostiene di essere il presidente dei giornalisti sportivi libici e ci invita a riprendere i nostri bagagli perché bisogna partire subito. “Dobbiamo liberare la stanza?” gli chiedo. E lui: “Potete fare quello che volete”. “Sì, ma dove andiamo, visto che sono le 11 di sera e avremmo bisogno di dormire?”. Risposta: “La nostra destinazione è Sirte”.

Non ci posso credere: Sirte è lontana oltre 450 chilometri da percorrere sulla litoranea costruita da Mussolini, non esattamente un’autostrada a quattro corsie. Questo significa che passeremo la notte in bianco. Comincio a chiedermi chi me l’abbia fatto fare di imbarcarmi in quest’avventura.

Alle 23 e 30 lasciamo l’Hotel Al Mahari e ci lanciamo in un’altra folle corsa, questa volta nel cuore della notte. Durante il viaggio incontriamo numerosi posti di blocco, ai quali il nostro autista si avvicina rallentando, lampeggiando gli abbaglianti, ma senza fermarsi. Evidentemente i militari sanno di chi si tratta e hanno disposizioni di lasciarci passare.

A un certo punto ci fermiamo davanti a un bar di Misurata stranamente aperto a quell’ora. Il nostro angelo custode travestito da autista ci offre da bere e ne approfittiamo per testare l’igiene dei bagni libici.

Viaggiando sempre sui 120-130 chilometri l’ora in una strada a due sole corsie praticamente deserta arriviamo a Sirte intorno alle cinque del mattino. È ancora buio, ma il sole del nostro secondo giorno in Libia sta per sorgere, fuori ci sono 30 gradi. All’ingresso di Sirte veniamo accolti da gigantografie di Mu‘ammar Gheddafi perché questa è la sua città e qui intorno, da qualche parte, sorge la famosa tenda dove riceve gli ospiti di riguardo.

Giungiamo nel resort in cui potremo finalmente riposarci. Entro nella mia suite, un appartamento enorme arredato con mobili moderni di stile occidentale e la prima cosa che mi colpisce è l’aria condizionata a palla: ci saranno a malapena 16 gradi, rischio la congestione. Spengo tutto e cerco di coprirmi alla meglio. Il frigo bar è pieno di roba, ci dicono che è tutto a nostra disposizione. Mi infilo nel letto stravolto e pieno di dubbi: che cosa ci aspetterà l’indomani?

Gheddafi padre nel 2003

Mi sveglio intorno a mezzogiorno, mi affaccio sul terrazzo, c’è un sole fantastico, fa caldissimo, ma il clima è secco. Scendo nella hall, dove incontro i miei compagni di viaggio; cerco Massimo, ma scopro che è rimasto a Tripoli. Decido di chiamarlo al telefono perché mi aveva lasciato un recapito, e gli chiedo se abbia qualche notizia dopo quella folle notte. Mi risponde che non ne sa nulla, che siamo nelle mani del governo libico e che dobbiamo stare tranquilli.

Nel frattempo si è fatta l’ora di pranzo e ci indicano il ristorante dove troviamo abbondanza di tutto, ricordo in particolare dell’ottimo pesce fresco. Mentre faccio un salto in camera, incrocio finalmente Batistuta, che scende dalle scale ed evidentemente alloggia nel nostro stesso resort.

Sembra la prima buona notizia da quando siamo arrivati. Almeno la sua presenza non era una bufala. Lo saluto, gli chiedo quando potremo fare l’intervista e lui resta sul vago, appare quasi infastidito, mi dà una risposta evasiva che non promette nulla di buono. Lo vedo salire su un Range Rover militare che parte sgommando.

Comincio a sentir puzza di bruciato, quando ricompare miracolosamente il sedicente presidente dei giornalisti sportivi libici, che ha l’aria di sapere tutto senza volermi dire niente. Gli chiedo quale sia il programma della giornata, ma anche lui mi dice di stare tranquillo, ci farà sapere quando sarà il momento.

Coi miei tecnici decidiamo di andare a fare due passi, senza allontanarci troppo dal resort. Ci imbattiamo in una tenda berbera, ci sorridono ma non parlano inglese. Riusciamo a capire che ci invitano a entrare. Sono molto gentili, ci mettiamo a sedere per terra, ci offrono un ottimo thè alla menta, cerchiamo di stabilire una sorta di dialogo, fatto più che altro di gesti da interpretare. Passiamo un’ora lì dentro, li ringraziamo dell’ospitalità, poi riprendiamo la via del resort.

Salgo in camera e quando scendo trovo il sedicente presidente dei giornalisti sportivi libici che mi annuncia trionfalmente: “Preparatevi che tra poco andiamo”. Dove andremo rimane per il momento un mistero gaudioso.

Intorno alle 17 arrivano un paio di Range Rover militari, che caricano noi e il nostro collega di Orbit Tv con la sua troupe, e si parte per destinazione ignota. Dopo una decina di minuti di viaggio, raggiungiamo l’ingresso di un compound sul mare, i soldati che presidiano la garitta ci danno uno sguardo sommario, poi alzano la sbarra e ci fanno passare. È un posto stupendo che comprende, a occhio e croce, una decina di villette eleganti con solo il piano terra. Davanti si estende una spiaggia incontaminata bagnata da un mare di un colore blu intensissimo.

Il nostro amico giornalista ci invita a entrare in una di queste casette, ci mette a disposizione una quantità esagerata di bevande, thè, caffè, panini, tramezzini, dolci. Rimaniamo lì dentro una mezz’oretta in attesa di notizie che non arrivano. Comincio a innervosirmi e allora mi affaccio all’esterno: proprio in quel momento mi trovo davanti Batistuta e Gheddafi in costume da bagno, reduci da una nuotata in mare. Saluto Saadi, che naturalmente sa benissimo chi sono, lo ringrazio per la squisita ospitalità (risparmiandogli i particolari sulla simpatica scampagnata da Tripoli a Sirte nel cuore della notte) e chiedo nuovamente a Gabriel se possiamo fare l’intervista. Lui è visibilmente contrariato e mi risponde che non ha intenzione di rilasciare nessuna intervista.

Il motivo mi appare chiaro quando ripenso a quello che avevo letto prima di partire: Batistuta aveva rifiutato la convocazione della nazionale argentina per la Coppa America, che si stava disputando in Paraguay. Ne erano seguite violente polemiche, con la stampa del suo Paese che lo accusava di diserzione, ed evidentemente lui non aveva intenzione di fare vedere che era in vacanza in Libia, ospite di Gheddafi. Saadi coglie il mio disappunto e mi sorride, dicendomi in italiano che ci saremmo visti più tardi.

Ok penso, va bene tutto, ma allora perché organizzare questa colossale e costosa sceneggiata? Lo capisco poco dopo, quando rientro in casa un po’ alterato, seguito dal nostro angelo custode, il principe dei giornalisti sportivi libici. Fatico a controllarmi e gli chiedo quanto deve durare ancora questa presa in giro, visto che siamo venuti dall’Italia per un’intervista a Batistuta. E lui serafico: “Capisco che tu sia arrabbiato, ma posso proporti un’intervista a Saadi Gheddafi, Presidente della Federcalcio libica”.

In un attimo tutto mi appare chiaro: questa tarantella è stata architettata per promuovere l’immagine del figlio di Mu‘ammar Gheddafi sulle reti Fininvest, sapendo sin dall’inizio che Batistuta non avrebbe parlato.

Avrei voglia di spaccare tutto, ma vorrei anche rientrare in Italia intero. E allora abbozzo: “Ok, vada per l’intervista a Saadi”. E lui: “Mi dovresti dare prima le domande che intendi porgli”. Naturalmente non avevo preparato nessuna domanda, semplicemente perché non dovevo intervistare lui, per cui gli rispondo: “Ti consiglio di fidarti di me perché le domande le farò al momento”. Il “collega” capisce il mio nervosismo e accetta in rischio di domande non pre autorizzate, forse teme che gli chieda delle notti perugine.

Passa quasi un’altra ora e finalmente ci vengono a prelevare per introdurci nella villa padronale di Mu‘ammar Gheddafi, per l’occasione occupata dal figlio, a pochi passi da dove stavamo. Ci fanno montare il set nel grande salone arredato in stile arabo con finiture in oro zecchino. Tre uomini dall’aria sospettosa controllano che non nascondiamo armi di distruzione di massa e quando tutto è pronto chiamano Saadi.

Lo saluto nuovamente, ci accomodiamo su due poltrone affiancate, mi mostra il pallone d’argento che regalerà a Batistuta, poi mi dice: “So che lei ci tiene a intervistare Gabriel, vedo cosa posso fare”. Lo ringrazio e per un attimo mi illudo che davvero il suo intervento possa sbloccare la situazione. Sono teso, mi sento a disagio, ho timore di superare un confine oltre il quale potrebbe accadere qualcosa di sgradevole.

Chiedo a Gheddafi se vuole fare l’intervista in italiano, dati i suoi trascorsi, ma risponde di preferire l’arabo e indica un interprete che tradurrà le nostre parole. Improvviso le domande, parliamo delle prospettive del calcio libico, della sua esperienza in Italia, dei suoi modelli di calciatore. Terminata l’intervista, che dura circa un quarto d’ora, ringrazio Saadi e lo saluto. Mentre torno verso la villetta dove ci avevano accolti, noto un grande camper parcheggiato lì accanto. Mi chiedo a cosa serva, ma lo scoprirò parecchie ore dopo.

Rientriamo al resort di Sirte poco prima dell’ora di cena, cerco Massimo a Tripoli, gli spiego dell’accaduto e lui si dice costernato, ma mi assicura di essere stato all’oscuro di tutto. Il suo compito era solo di portarci in Libia. Capisco che mi dice la verità e lo prego di organizzarci un volo di rientro al più presto.

L’indomani mattina partiamo col nostro solito autista alla volta di Tripoli, torniamo all’Hotel Al Mahari, dove riprendiamo possesso delle nostre stanze. Il primo volo per Roma è previsto per il giorno dopo, lunedì 28 giugno.

A bordo dell’aereo della Lybian Airways incontro il collega di Orbit Tv, del quale avevo perso le tracce. Confessa di aver trascorso la notte con Saadi Gheddafi e Batistuta a caccia di gazzelle nel deserto libico. “È stata una splendida esperienza – mi spiega – e alla fine ho fatto una bella intervista a Batistuta”. Ecco, ci mancava solo questo, ora la beffa è davvero completa.

Quando sbarco a Fiumicino chiamo mia moglie Manuela, che non aveva mie notizie da tre giorni, e subito dopo telefono al mio direttore, al quale spiego tutta la storia. “L’importante è che sei rientrato – mi dice – non devi sentirti in colpa, tu hai fatto tutto il possibile. Stai tranquillo, noi eravamo un po’ in ansia perché non ti sentivamo, ma ora è tutto a posto”.

L’indomani torno in redazione e invio a Milano la cassetta con il girato di Sirte. Qualche giorno dopo mi chiama Massimo, dicendomi che Saadi voleva sapere quando sarebbe stata trasmessa la sua intervista. Rimango sul vago, non ho il coraggio di dirgli la verità: quell’intervista non sarebbe mai andata in onda. E io non sarei mai più tornato in Libia.

Nella foto di apertura, 1983: Saadi Gheddafi posa tra Dino Zoff, allenatore della Lazio, e Paul Gascoigne

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