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Allonsanfàn
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Avere tutto. Missiroli all’avventura tra poker e balere

Nei tempi contemporanei in cui uno non vale uno ma più che spesso anzi quasi sempre zero, almeno per quel che riguarda il peso individuale nel determinare non tanto la Storia quanto persino la propria di storia… in questi alienati e scontati tempi post hemingwayani, dicevo, in cui siamo forzati ad assistere senza partecipare, è difficile per uno scrittore inventarsi un vero romanzo, ossia qualcosa che somigli a un’avventura, che ne abbia almeno il sapore.

È un’impresa darsi un passato, un presente e un futuro in cui siamo noi a scriverci il destino, e in cui il desiderio, l’illusione di poter “avere tutto”, non porti alla delusione ma si trasformi nella consapevolezza che possiamo raggiungere “solo le due o tre cose per cui veniamo al mondo”. Oppure no?

Avere tutto (Einaudi) è la risposta in tema di Marco Missiroli che, prima di diventare uno scrittore, si è convinto di essere uno scrittore – nel senso che un autore deve avere il coraggio di considerarsi tale e di scegliere una poetica per se stesso – e qui fa vivere/rivivere una Rimini rétro in un romanzo che ha per protagonista un figlio posto di fronte alla morte del padre, simbolico cliché cui nessuno scrivente di una certa età può sottrarsi.

Qui il vecchio consumato dal cancro, Nando Pagliarani, è un uomo semplice e verace che verrà infine ricordato – punta tacco punta tacco – per esser stato un ardito ballerino: si è inventato tra l’altro una mossa danzante, esageratemente bella e generosamente inutile, da eseguire in pista con la compianta moglie, una mossa ispirata all’onesterrimo libero juventino Gaetano Scirea; mentre il figlio, Alessandro detto Muccio, che da Milano torna ad accudire papà nella resa dei conti, fa il copywriter (ma ovvio!) e ha la scimmia sulla spalla del poker (meno ovvio).

Queste due identitarie e tutto sommato romantiche passioni – il volteggio spericolato e la puntata dissennata al tavolo clandestino – percorrono il resoconto che si vorrebbe crudo, spietato, dell’agonia del padre. Missiroli usa per redigerlo un italiano parlato, spezzettato e imbevuto di dialettismi, i quali ci dovrebbero restituire (“sei un patàca”) il mondo antico di una provincia colta nella sua umanità (residua) e nella sua (presunta) sterminata generosità di caratteri.

Al contrario, le memorie di poker del milanesizzato Muccio – inframmezzate al tema principale in montaggio alternato – trovano espressione in un gergo pseudo scientifico – misurante persino la pressione del dito sulla carta servita – da manuale acquistato su Amazon. Insomma, cose del tipo: “Ciclotimia da gioco: movimento psichico a sinusoide, con sei-otto picchi emotivi nel giorno del tavolo…”.

Ciò per dire: il linguaggio di Avere tutto si allontana dalla solita prosa grigia e giornalistica del romanzo italiano medio, che aliena dall’evocare si accontenta di fare la più o meno sciatta cronaca di quello che accade, un po’ come ce la si racconterebbe tra avventori al bar. I nomi e i cognomi, dài, li sapete anche voi.

Comunque. Missiroli, che pure sovente nei romanzi precedenti è stato giornalista da bar, oggi scarta deciso, e cerca l’avventura non solo nel contenuto ma nell’impasto letterario che si finge basso per volare alto, con costruzioni e tocchi poetici da revenant di astratti furori popolari e di quesiti esistenziali finto naïve:È davvero mio padre, quest’uomo con i fianchi da farfalla?”. Mentre la domanda delle cento pistole è la non meno essenziale anche se piuttosto scontata (potrebbe porla anche Insinna): Dove vorresti essere con un milione di euro in più e parecchi anni di meno?.

Ecco. L’impressione è che Missiroli, procedendo a tratti con fatica – o sono io lettore che procedo con fatica nell’insistente ping pong prosastico/lirico – finisca con l’assomigliare a un tassidermista del romanzo d’avventura o di verità umana, che poi è lo stesso, lavorando in contenuti e forma con lo spettro espressivo di un’Italia apparentata – giusto per spiegarne la bonomìa popolare – un po’ al neorealismo e un po’ allo strapaese dei nuovi gialletti regionali. È un’Italia sempre e comunque da bozzetto, che forse non c’era neanche una volta perché nella realtà forse non c’è mai stata – con cari saluti a Muccio, Nando e a chi fa la comparsa, dopo aver dato un occhio ai Vitelloni, di certo a La prima notte di quiete e forse a Rimini Rimini (il film più che il romanzo).

Credit: L’idea di fedeltà by Memoria Festival is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.

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