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Allonsanfàn
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La primavera di Israele

E così anche Israele ha avuto la sua primavera. Ma non è da paragonare alle cruenti rivolte arabe del 2011 della Tunisia, della Libia, dell’Egitto, della Siria. Inoltre i “rivoltosi” non sono palestinesi dei territori occupati, ma cittadini del democratico e progredito Stato ebraico, che hanno inondato per giorni a centinaia di migliaia le strade e le piazze di Tel Aviv, di Gerusalemme, di Haifa per protestare contro il governo reazionario di Benjamin Netanyahu.

La causa scatenante non è stata la miseria – che in Israele è una rarità – né sono state richieste sociali, ma la protesta contro un attentato alla democrazia che il premier, arrogante e indagato per corruzione, aveva preparato con la legge che limita le prerogative della magistratura sottoponendo la Corte suprema al controllo del governo. La pretendevano soprattutto i religiosi ultraortodossi della maggioranza i quali chiedevano anche misure del tipo iraniano come la separazione tra uomini e donne nelle università. “Fascisti messianici” li ha definiti lo scrittore israeliano Etgard Keret. Alla fine, come sappiamo, Netanyahu ha dovuto arrendersi e congelare la legge grazie anche all’intervento del presidente Isaac Herzog.

Una manifestazione di massa come quella dei giorni scorsi e incruenta non si era mai vista in Israele. Resa ancor più clamorosa dalla partecipazione trasversale della popolazione, è stata una protesta scoppiata all’improvviso senza una organizzazione preparata dall’opposizione o dai movimenti sindacali. Sono scesi in piazza studenti, professori, operai, militari, religiosi, laici, elettori di destra e di sinistra, persino membri del Mossad. Oltre allo sciopero generale, tutte la ambasciate israeliane hanno chiuso i battenti.

Gli israeliani hanno voluto difendere quella democrazia conquistata dai loro nonni costretti a fuggire dall’Europa. Era la democrazia dei kibbutz, socialista ma non di tipo sovietico, nata nella Palestina ancora protettorato britannico, tra le terre aride comprate a caro prezzo dai palestinesi e difese dagli attacchi terroristici con pochi fucili mentre i soldati inglesi guardavano altrove.

I fondatori della nuova nazione erano ebrei europei scampati alle persecuzioni naziste e decenni prima a quelle degli zar. In Palestina già esisteva da secoli una borghesia ebraica costituita dai discendenti degli ebrei fuggiti dalla Spagna alla fine del 1400 durante le persecuzioni dell’Inquisizione di Torquemada e ben accolti dall’Impero ottomano che aveva bisogno di “cervelli” per la burocrazia e l’economia.

1945, Kibbutz Ein HaShofet, Koestler è il quinto da destra

L’epopea dei kibbutz del ventesimo secolo la racconta lo scrittore ebreo Arthur Koestler nel romanzo Ladri nella notte. Descrive la costruzione delle basi di un insediamento agricolo – La torre di Esdra – svoltasi di notte per sfuggire ai controlli della polizia britannica. Gli scontri con i palestinesi erano frequenti e la piccola colonia nascente doveva difendersi e nello stesso tempo lavorare i campi, costruire baracche. I coloni cercavano di trattare con i capi dei villaggi arabi, ma un’intesa sembrava impossibile. Si scontravano due civiltà: quella del fatalismo e oscurantismo arabo – “le vostre donne vanno in giro con le gambe scoperte” rinfacciava il capo di un villaggio – e la volontà degli “intrusi” occidentali di cambiare il mondo. Hanno prevalso i secondi attraverso tante guerre, occupazione di territori e la trasformazione della neonata nazione ebraica in un Paese mini imperialista in nome della difesa dal mondo arabo.

L’Israele dei primi tempi è ormai cambiato completamente. Le città degli anni Quaranta si sono trasformate: Tel Aviv è una metropoli moderna piena di vita, di servizi pubblici, di collegamenti ferroviari con le altre città; il deserto del Negev è stato reso vivibile.

A pochi chilometri esiste un altro mondo, quello dei territori occupati dove i palestinesi sopravvivono tra la miseria, la severità arrogante degli israeliani e la religione islamica che impone ancora costumi feudali. La striscia di Gaza è nelle mani del partito armato di Hamas che taglieggia la popolazione e si arricchisce accaparrando gli aiuti provenienti dall’Onu e da singole nazioni.

Del resto questo accadeva anche ai tempi di Arafat quando il capo dell’Olp tratteneva per sé una percentuale dei finanziamenti per creare società industriali e commerciali di sua proprietà e mascherate da prestanomi in Tunisia, Egitto e Sudan. Secondo un’inchiesta dell’Onu, aveva accumulato nelle banche svizzere più di un miliardo di dollari che adesso si gode la vedova.

Un manifesto che ricorda Samir Kassir

Del mondo arabo-palestinese si conosce poco mentre di quello israeliano tutto, anche i misfatti, mi disse un giovane giornalista libanese che scriveva per L’Orient-Le Jour, il maggior giornale di Beirut in lingua francese. Si chiamava Samir Kassir, figlio di un palestinese e di una siriana. Era un intellettuale laico attento osservatore e critico del mondo arabo. Nel ’95 fondò la rivista L’Orient-L’Express molto polemica verso i regimi autoritari musulmani. Mi fece un esempio di cos’era quel mondo riportando un normale dialogo tra due donne. Una chiedeva all’altra come stesse il marito. “Come vuole Allah” era la risposta. Altra domanda: “Cosa fa tuo figlio?”. “Allah ha voluto che andasse in guerra”.  E Allah era sempre presente nel dialogo anche per aver trovato posto sull’autobus.

Kassir ha poi scritto un saggio dal titolo L’infelicità araba, nel quale afferma che gli arabi devono assumere consapevolezza del proprio declino e riappropriarsi del proprio destino attraverso una rivoluzione sociale, politica e culturale che lui definisce Nahda che in arabo significa risveglio, rinascimento (non quello di Matteo Renzi). Il giornalista è morto a Beirut nel 2005 per una bomba nascosta nella sua auto.

E se il mondo arabo appare fermo al medioevo, Israele da tempo ha intrapreso un cammino politicamente a ritroso. Il socialismo dei padri fondatori non esiste più, come sono scomparsi i kibbutz trasformati in grandi aziende i cui amministratori vivono nei grattacieli di Tel Aviv; nei confronti del popolo palestinese l’uso della repressione è sempre più duro senza distinzione tra terroristi e civili. Forse le manifestazioni di questi giorni cambieranno qualcosa.

Park Tzameret, a Tel Aviv

Nel 1984 in Israele fui ospite di uno degli ultimi kibbutz tradizionali posto ai confini con la Giordania. Tra gli abitanti incontrai anche una signora di origine italiana, nata a Roma. Il cognome era Formiggini. Mi raccontò di essere scampata al rastrellamento tedesco grazie alla portinaia del palazzo situato fuori dal ghetto, in cui viveva con la famiglia. Aveva 10 anni quando all’alba del 16 ottobre del ’43 i tedeschi deportarono più di mille ebrei romani. I suoi non lo seppero subito e quella mattina la mandarono a comprare del pane. Al ritorno vide un camion tedesco fermo davanti al portone e nello stesso tempo la portinaia che ne uscì e le andò incontro. Indicò una panchina e le disse: “Non ti muovere di lì fino a quando non ritorno a prenderti”.

“Dalla panchina vidi i miei genitori e mio fratello caricati a spintoni sul camion. Di loro non seppi più niente” mi raccontò. Più tardi la portinaia la nascose nella sua abitazione e la mattina dopo la accompagnò da alcuni parenti che vivevano nei pressi di Roma dove rimase sino alla liberazione della capitale. Una donna cattolica del popolo e una bambina ebrea, due religioni diverse unite dall’umanità.

Chiesi alla signora cosa pensasse dei palestinesi. “Anche loro subiscono la diaspora e questo mi addolora – rispose – ma invece di combatterci non potrebbero fare come i nostri padri? Creare nuovi villaggi e lavorare la terra? I loro fratelli del petrolio hanno tanti dollari per aiutarli”.

Nella foto in apertura, proteste a Tel Aviv (wiki cc)

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