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Allonsanfàn
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Luca Canali. Il baro e la pietà per le spie

Agli inizi degli anni Ottanta, da lettore avevo una forte simpatia per un latinista e scrittore, Luca Canali, rovinato e ridotto d’improvviso al disastro da una sindrome, come si diceva un tempo, maniaco depressiva.

Trovai spaventoso e persino crudele verso se stesso il suo Autobiografia di un baro (Bompiani 1983), titolo contenente un ossimoro clamoroso, reso da privato “civile” anche da ciò che serviva il puro testo: la copertina del libro raffigurava un particolare dei funerali di Togliatti dipinti da un quanto mai imaginifico Guttuso.

Ma chi era in realtà il baro? Luca Canali, classe 1925, si era presentato come un uomo bello e altero, uno studioso che aveva bruciato le tappe, un principe comunista della gauche caviar, si sarebbe detto ora, un cattedratico in Porsche e un dongiovanni reo confesso cui era capitato in sorte, intorno ai trent’anni, un destino crudele, sotto forma di ripetuti crolli nervosi. Negli anni Ottanta lasciò l’università (insegnò a Pisa e Roma) e poi studiò, tradusse (moltissimo: tutto Virgilio, tra l’altro, e l’amato Lucrezio), e scrisse in maniera esagerata, saggi, romanzi e poesie, da battitore libero – dal PCI era stato espulso (credo) in seguito al dissenso sui fatti d’Ungheria.

Dagli anni Ottanta, ho seguito con curiosità un po’ morbosa l’esistenza creativa di Canali chiusa tra superbi guizzi intellettuali e lunghi spegnimenti, consultandola a volte come se fosse un privato oroscopo. Aspettavo novità librarie del professore e da queste traevo aruspici. Per esempio, consideravo appartenenti a uno stato di salute quanto sapeva di lavoro alacre, di professione, di divulgazione specialistica: non mi figuravo  certo che una traduzione dall’Eneide per la Fondazione Valla conservante in italiano l’accentazione della prosodia latina fosse frutto di un comportamento ossessivo.

Mi parevano invece di cattivo auspicio i silenzi, questo era assodato, e in genere i romanzi o i racconti imperniati sulle vicende della decadente borghesia della Capitale – la città dove Canali viveva freudianamente sano: amava pur sempre e riusciva a lavorare. Questi testi narrativi avevano un vago sapore di disperazione stoica, sotterranea, erano zuppi di luci romane gialle e smorte, e (forse) di degenerate (scherzo) influenze moraviane…

Pregiudizi, perché ieri, dopo tanti anni – Canali è scomparso “da vivo” e “da comunista” nel 2014 – mi sono trovato in mano, per 2 euro in una libreria dell’usato, un romanzo che avevo mancato: Pietà per le spie, edito nel 1996 da Piemme e non, come sarebbe stato logico e dovuto, da Mondadori Einaudi Adelphi…

È un romanzo scritto in latinonon davvero: ma è costruito con un senso della misura e della proporzione e con un giro di frasi semplice ed essenziale come un ricamo, che mi ha ricordato antichi testi – un romanzo, dicevo, su un ragazzo italiano, il timido conte Corsieri, che vive la delusione del crollo del fascismo e persino la tentazione del collaborazionismo, mano mano che la sua vita sentimentale, confusa e insicura, gli presenta alti prezzi da saldare. Il tutto nel caotico e affannoso paesaggio della Capitale: l’azione si svolge dal 1943 al 1985, ma i capitoli più recenti servono per tirare le fila di un destino e di una galassia di destini che contornano quello dell’infelice e debole ragazzo, del nobile Corsieri, macchiatosi di un non redimibile delitto: è lui la spia del titolo.

Noto che qui il termine “spia” è importante come quel “baro” di una volta; è l’evidenza di un problema, di un malessere italiano che dal Novecento arriva – anche se Canali non ha fatto a tempo a vederlo e a scriverlo – fino a oggi. Comunque: molto collega nei contenuti questo romanzo all’Autobiografia, a partire dal profondo senso di morte e dal desiderio di annichilimento che viene a sfiorare e a scheletrire certe pagine, ma questa volta con un tocco di mondana sopportazione. Canali nasconde il suo pessimismo cosmico dietro la compostezza, dietro una visione acuta e (quasi) impassibile di ciò che di meschino accade nell’animo umano, in specie nell’ambiguità dell’agire politico… (Quasi) impassibile. Il baro, celandosi dietro una trama realistica, senza spazzar via le carte né mai puntare un dito accusatore, è colto semmai nell’atto del compatire, del “soffrire con”, del provare pietas, mentre dice limpidamente un’altra volta tutta la verità.

Non ricordavo che al termine dell’Autobiografia, dopo aver rivissuto in un rapido e inappellabile riepilogo tutti i bluff di una vita, le inadeguatezze nascoste nei vari ruoli recitati, famigliari e sociali, e dopo aver riconosciuto che solo “nella condizione d’infermo” si è trovato ad agire “senza trucchi”, Canali avesse lasciato alla voce della moglie Maria l’ultimo capitolo. Anzi, dice il baro, è stata lei che gli ha chiesto di scriverlo. Serve un finale (quasi parodisticamente ma prima di tutto letterariamente) joyciano, affidato a un’indomita e massacrata Penelope, perché il racconto si compia e tutto ciò che precede sia visto con occhi puri e venga non so se più sorprendentemente o ferocemente confermato.

Penelope a parte, l’Autobiografia ha due, anzi tre testi di prosa che la completano – non penso nemmeno, in questa sede, a mettere ordine tra le raccolte di poesie e i racconti e romanzi di Canali (sono più di un diluvio). I testi, che oggi verrebbero detti brutalmente di autofiction, sono Spezzare l’assedio (Bompiani 1984) e Amate ombre (Bompiani 1987), e però credo sia necessario far precedere tutto dalla raccolta di ricordi, anzi di fotografie, de Il sorriso di Giulia (Editori Riuniti 1980): non so perché ricordavo questi brevi testi come posteriori e in qualche modo, se non risolutivi di una guarigione, consolatori. Ho ritrovato Il sorriso di Giulia nella spartana veste della collana I David, diretta per la casa editrice del PCI da Gian Carlo Ferretti, un nome noto agli studiosi dell’“industria culturale” e a chi era giovane e studiava Lettere negli anni Settanta…

Invece. Per chi fosse curioso di vedere in viso il professor Canali, molto vecchio ma bellissimo, lucido e ancora e per sempre “comunista”, c’è un significativo video postato da Fulvio Abate sulla sua tv Teledurruti – parlarne aprirebbe un altro discorso ancora (quindi, forse: continua)

  • Ho comprato per 2 euro Pietà per le spie (Piemme) a un’Ultima spiaggia de Il Libraccio e Autobiografia di un baro in versione economica Bompiani per 3 euro alla bancarella di Fabrizio in piazzale Loreto, Milano 
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