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Allonsanfàn
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In memoria di Lea Schiavi, giornalista antifascista

Lea Schiavi è stata una figura eccezionale per i tempi in cui ha vissuto. Durante il fascismo era una delle poche giornaliste italiane che si occupava di politica, mentre le colleghe scrivevano di gossip, di moda o nella rubrica delle lettere. Lea venne fatta uccidere dal regime e la storia della Resistenza l’ha ignorata. Si ricordò di lei, invece, il governo degli Stati Uniti – nel 1996 – quando il suo nome fu inciso sul monumento eretto nel cimitero di Arlington (Washington) per ricordare i 934 giornalisti ammazzati mentre lavoravano come corrispondenti di guerra.  

Lessi la notizia di quella dedica di Washington su un flash della Associated Press. Non ero a Milano, ma la segnalai ugualmente alla redazione. Non ricordo se venne pubblicata. Quel nome però mi rimase impresso con la sensazione di averlo già sentito in passato. Alla fine mi ricordai di averlo letto su una lapide di un piccolo e abbandonato cimitero durante un mio primo viaggio in Iran.

Il monumento per i giornalisti ad Arlington

Era l’ottobre del 1972 e il giornale in cui lavoravo da poco – il settimanale Tempo – mi mandò nell’Iran dello scià Reza Pahlavi, prima volta che facevo un viaggio fuori dall’Europa. Era una missione poco impegnativa: l’Alitalia inaugurava un volo diretto da Milano a Teheran e per l’occasione aveva invitato un gruppo di giornalisti. Oltre a scrivere di quell’avvenimento, il direttore mi aveva incaricato di raccogliere materiale su quel Paese che a quei tempi era molto amico dell’Italia grazie agli accordi sul petrolio voluti 15 anni prima da Enrico Mattei, presidente dell’ENI.

Teheran mi sorprese molto: appariva come una metropoli europea con grandi viali molto simili ai boulevard parigini; c’erano tanti giovani vestiti alla moda del tempo, ragazze in minigonna, signore molto eleganti; poche le donne in chador. Nel centro della città dominava un’atmosfera occidentale; dai minareti il muezzin non ripeteva l’appello alla preghiera, cosa che accadeva in altri Paesi musulmani e oggi accade anche in Iran. Il grande e antico bazaar era come una città a parte, bellissima, che emanava un’atmosfera di abbondanza e di ricchezza.

Fui colpito anche dalle tante librerie del centro i cui scaffali contenevano libri di ogni Paese. In una di queste, molto grande, notai opere di Moravia, Calvino tradotte in farsi, la lingua ufficiale, e anche in edizione italiana. C’erano giornali italiani, Il Corriere della Sera, Il Giorno, l’Espresso, Panorama e anche l’Unità.

Lo Scià voleva occidentalizzare il Paese e creare una borghesia moderna, ma con una democrazia ancora molto debole. Erano riforme superficiali: nelle periferie della capitale dominavano miseria, ignoranza, la propaganda dei religiosi musulmani nelle moschee che la polizia segreta dello Scia, la famigerata Savak, reprimeva duramente. Esisteva anche un partito comunista semiclandestino cui aderivano soprattutto gli operai dei pozzi di petrolio, delle raffinerie e delle nuove industrie. Veniva tollerato dalle autorità purché non organizzasse manifestazioni pubbliche. Con la rivoluzione di Khomeini tutto cambiò in peggio: le librerie date alle fiamme con tutti i libri occidentali, i leader comunisti eliminati. Come è noto, oggi l’Iran è precipitato nel Medioevo.

Tornando a Lea Schiavi, trovai quel nome durante un viaggio organizzato per il nostro gruppo di giornalisti a Isfahan e Tabriz. Lungo la strada tra le due città l’autista del pulmino fece una breve deviazione e ci portò nel villaggio di Miandubad, fermandosi presso una grande costruzione semidiroccata. Qui c’era un convento religioso, ci disse, senza specificare chi lo avesse abitato. Nel visitare quel posto notammo il piccolo cimitero seminascosto dalla vegetazione e su una delle lapidi lessi: Lea Schiavi Burdett, nata a Borgosesia, Italia nel 1907, morta nel 1942. La frase, in inglese, era seguita dalle parole in italiano “Cara Lea ti abbraccio teneramente”.

Tornato in Italia feci delle vane ricerche sino a quando Paolo Monelli, vecchio giornalista del Corriere che teneva una rubrica su Tempo non me ne parlò e mi dette alcune informazioni. Raccolsi un po’ di notizie che non approfondii. Di recente il giornalista Massimo Novelli ha scritto un libro su Lea intitolato Il caso Lea Schiavi. Indagine sull’omicidio di una giornalista antifascista (Graphot editore).

Lea, proveniente da Borgosesia, si trasferì Torino e dopo la laurea si dedicò subito al giornalismo, la sua passione. Per questo, nel 1936, si trasferì a Milano ospitata dal fratello Giovanni. Incominciò a lavorare per una casa editrice – l’Istituto editoriale moderno – che pubblicava manuali del “saper vivere”. Per un certo periodo si trasferì a Roma, attratta dalla capitale, e qui conobbe il giornalista sessantenne livornese Guelfo Civinini, inviato del Corriere della Sera, che la presentò negli ambienti della stampa. Manifestò subito il suo carattere di ragazza esuberante, piena di curiosità, desiderosa e pronta a imparare il mestiere di giornalista e, nello stesso tempo, ad approfondire la sua cultura. Collaborò al Tempo quotidiano e poi al Messaggero, ma tornò presto a Milano per essere assunta, su segnalazione di Civinini, all’Ambrosiano, un quotidiano milanese fondato dal Movimento futurista che, seppur nei limiti imposti dalla dittatura, era moderno, critico verso certi ambienti fascisti. Vi collaboravano i più noti scrittori, pittori, architetti, intellettuali del tempo: Carlo Carrà, Fortunato Depero, Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Carlo Emilio Gadda, Enrico Falqui e tanti altri.

Lea si occupò di critica teatrale e cinematografica e i suoi articoli ebbero successo. Ma proprio nell’ambiente giornalistico nacque la sua avversione per il regime, sentimento che non nascondeva. Una nota informativa del 1938, trovata dopo la guerra al ministero degli Interni e destinata al questore di Milano, riferiva di un pranzo insieme a un gruppo di colleghi nel noto ristorante Bagutta, durante il quale la “signorina Schiavi rivolgendosi ad alcuni commensali – tra i quali un collega del Corriere e uno della Gazzetta dello Sport – definì il Duce un muratore e il Fueher un imbianchino, tra l’approvazione di tutto il gruppo”. In quei giorni era in corso la visita di Hitler in Italia. Ovviamente la polizia aveva informatori anche nei ristoranti. Poteva essere un cameriere o un altro giornalista. L’informatore aggiungeva nella nota: “Fate sorvegliare questo tavolo”.

Ciononostante non ebbe fastidi da parte delle autorità. La sua cartella presso il ministero degli Interni si riempiva di rapporti ma le informative, a parte quelle di Milano, non erano negative. Un rapporto inviato dal questore di Roma il 14 febbraio del 1939 diceva: “Non ha precedenti sfavorevoli; non risulta che durante la sua permanenza in questa città abbia dato luogo a rilievi in linea politica”. La tenevano d’occhio come migliaia di italiani. Un altro rapporto diceva: “A Roma, dove scende all’albergo Savoia, viene per recarsi a Cinecittà. Di recente ha chiesto un’intervista a Vittorio Mussolini” (figlio del duce, ndr).

Il 10 maggio del ‘39, quando ormai la guerra era alle porte, finalmente venne esaudito il suo sogno di giornalista. L’Ambrosiano la mandò a Belgrado come inviata. Il direttore le raccomandò di scrivere articoli di costume e di storia, non politici per non irritare il governo jugoslavo. A Belgrado incontrò molti colleghi stranieri con i quali poté confrontarsi e discutere liberamente. Venne a conoscenza della persecuzione degli ebrei in Germania. Scrisse un articolo sugli ebrei che vivevano in Jugoslavia, parlando bene di quella comunità scacciata secoli prima dall’Inquisizione spagnola. L’articolo venne segnalato dalla censura fascista.

I suoi articoli di costume piacevano molto e così dalla Jugoslavia fu mandata in Romania, mentre la guerra era scoppiata. A Bucarest conobbe Winston Burdett, un inviato americano della CBS, la più importante rete radiotelevisiva statunitense, e tra loro nacque subito l’amore. Durante la permanenza in quella città, frequentava il loro ambiente un gruppo di intellettuali dissidenti rumeni. Lea ormai non poneva più freno alle sue critiche contro l’Italia e la Germania. E c’erano tante orecchie intorno che l’ascoltavano e andavano poi a riferire.

La coppia, ormai inseparabile, si sposò nel luglio del 40. Un amico statunitense di Burdett, disse: “Credo la ami alla follia e ne sia ricambiato”. Un giorno al ristorante un’amica rumena di Lea le rimproverò di parlare troppo, di esporsi dicendo certe cose sull’Italia in presenza dei suoi connazionali che risiedevano a Bucarest. Lea rispose che non aveva paura e che, inoltre, aveva sposato un americano. In Italia ormai la sua posizione politica era nota e le venne imposto di rientrare. Si rifiutò e venne licenziata dall’Ambrosiano.

Winston Burdett nel 1954

Dalla Romania marito e moglie furono espulsi e dopo un breve periodo a Belgrado, si trasferirono in Turchia, Stato neutrale, dove il marito continuò a mandare da Ankara corrispondenze per la CBS, mentre Lea per un periodico americano, la TransradioPress. Un amico di Burnett, Carl Randau, conservò una lettera inviatagli da Winston: “Lea possiede molta esperienza come scrittrice, giornalista e fotografa; è veramente un portento e io la amo”. Lea, oltre a scrivere, faceva propaganda antifascista tra gli italiani residenti in Turchia.

Ormai all’ambasciata italiana la conoscevano bene, a tal punto che dopo la guerra fu trovato un rapporto, risalente all’agosto del ‘41, dell’agente del Sim (il Servizio segreto militare), capitano dei carabinieri Ugo Luca, che lavorava presso l’ambasciata come addetto commerciale. “Ci risulta che lavori per giornali americani e che faccia propaganda antifascista.  Al Cairo dicono che sia legata all’Intelligence Service e che abbia aderito al Free Italy Movement che alcuni elementi antinazionali hanno costituito a Londra. Quindi bisogna intensificare i controlli sui signori Burdett, soprattutto dopo l’occupazione anglo-sovietica dell’Iran”.

Nell’ottobre Winston venne trasferito dalla CBS a Teheran e partì immediatamente con Lea. Anche in Iran la giornalista italiana si fece conoscere e coltivò molte amicizie altolocate. Tra queste diventò sua amica una certa Zina – una donna bellissima – amante del nuovo Scià Reza Pahlavi. Lea fece propaganda antifascista e, nello stesso tempo, contribuì economicamente al sostegno degli italiani rimasti senza mezzi e impossibilitati a rimpatriare.

Verso la metà di aprile del ‘42, il marito di Lea fu mandato per lavoro in India e lei non lo accompagnò perché voleva recarsi in Kurdistan per un servizio fotografico. Prese un’auto a noleggio con l’autista, accompagnata da Zina e da un signore iraniano, loro amico. Partirono il 23 di aprile, passarono la notte a Isfahan e ripartirono il 24 mattina verso la regione del Kurdistan. Nel tardo pomeriggio, prima di arrivare a Tabriz, l’auto fu fermata da alcuni guardiani della strada, una specie di polizia stradale. Sembrava un normale controllo, ma uno di loro chiese chi fosse la signora Schiavi e quando Lea si fece riconoscere, prima spararono in aria per fare allontanare gli altri passeggeri, poi uno di loro sparò direttamente a Lea, colpendola vicino al cuore, e scomparvero. Gli altri passeggeri risalirono in macchina terrorizzati e puntarono verso un convento di suore cattoliche che l’autista conosceva. Ma la giornalista italiana morì prima di arrivare, dissanguata. Venne sepolta nel piccolo cimitero del convento dove ancora giace, in una tomba la cui lapide porta tuttora scolpita l’iscrizione fatta fare dal marito. Winston, che si trovava in India, venne informato da un dispaccio della CBS. Partì subito per l’Iran e da Teheran si recò al monastero dov’era stata sepolta la moglie.

Winston fece una denuncia alla polizia iraniana sottolineando che un conoscente, tale ingegner Lombardi, funzionario dell’ambasciata italiana di Ankara incontrato a Teheran dopo la morte di Lea, gli aveva confessato di aver assistito per due volte a un colloquio tra il capitano Ugo Luca e l’ambasciatore, durante il quale il primo si vantava di aver organizzato l’assassinio di Lea. La polizia iraniana gli disse che non poteva far niente. Qualche giorno dopo venne arrestato il presunto assassino, il quale disse di aver sparato per sbaglio e venne rilasciato. Burdett nel 1945, a fine guerra, denunziò Luca alla magistratura italiana, ma il procuratore archiviò subito la pratica; non ascoltò neanche il capitano Luca. Questi fu promosso colonnello e mandato in Sicilia a comandare la lotta contro il banditismo. Affermò che il bandito Giuliano era stato ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri. In realtà l’autore dell’assassinio fu il cugino Gaspare Pisciotta.   

(Credit: Journalists’ Memorial in Freedom Park [01] by SchuminWeb is licensed under CC BY-SA 2.0.)

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