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Yara. Il crimine letterario di Giuseppe Genna superstar

Accade nel mondo e in modo massiccio in Italia: la cronaca nera si è sbiadita e colorata uscendo dalla scrittura giornalistica per approdare ai territori dello spettacolo e dell’arte. Anzi: è diventata un genere narrativo. Paghiamo dazio, se va bene, a Truman Capote e a Dino Buzzati, mentre apriamo questo voluminoso Yara. Il true crime (Bompiani), di Giuseppe Genna.

Scrittore noir e tout court, Genna si dedica da buon ultimo al caso Gambirasio che, secondo lui, fa da spartiacque nella vita della nostra nazione quanto a “ricezione mediatica della cronaca”. Da ciò auto-incoraggiatosi, si lancia e strafa, in preda a una febbrile presunzione da narratore alfa che sniffa da par suo l’aria avvelenata di Brembate e paesi limitrofi, dei cui nomi barbarici snocciola per propiziarseli di continuo la litania.

Le pagine di Genna, anche tipograficamente, segnalano l’eccezionalità della storia (o dell’autore?), tra un primo capitolo in corsivo simile alle intro trash dei best seller di paura USA e visibilmente dedicato a se stesso (in quanto serial writer?) e parole spesso scritte a tutte maiuscole (per dirci “attenzione!” o per darci l’idea dell’urlo muto che agghiaccia il sensitivo scrittore?).

Mentre ricostruisce l’ultimo giorno di vita di Yara Gambirasio, il racconto prende subito facile velocità nell’ansia tachicardica di tante brevi frasette e troppi martellanti a capo di netta provenienza ellroyana – a proposito: ma quanti credono che, nel bene e nel male, Ellroy sia imitabile? Qui, nel suo ritmato puzzle, Genna incastra cronaca spicciola, fiacchi aforismi che si presumono lancinanti (“non tutti gli angeli sono custodi”, “…il colpevole sempre è l’ultimo testimone”) e domande retoriche dolciastre che paiono tratte da una poesia crepuscolare: “Vai, piccola anima. Di cosa sei esperta? Di nulla” (pag. 29). Ovviamente: in un paio di capitoli, dove sarà richiesta la mimesi di una più burrascosa confusione tra fatti criminali e personali emozioni, Genna farà invece il contrario, impastando il classico polpettone senza punti, tutto virgole, da farci trangugiare in pagine dense di piombo.

Il difetto letterario – sottolineo letterario perché solo di letteratura io sto parlando – di Yara si può trovare anche in un singolo paragrafo, per esempio a pag. 201: “Trascendiamo il maschio e la femmina: avremo pace. La violenza ci tornerà in altra specie? Usciamo dall’oscuro, dall’arcaico. Diminuiamo l’odio e verifichiamo se la morte cala”. Si cade in picchiata da un tono alto, oracolare, quasi biblico, nell’abisso di un colloquiale buon senso.

Volete un tragico Shakespeare che fa la ronda in Lombardia? A pag. 203: “Bergamo alta, il gelo ottobrino spinge l’estuario dell’autunno verso i rigori dell’inverno. L’inverno è scontento. Il nostro disappunto è…”. In fondo al brano, però, il Kitsch citazionista stramazza di nuovo a terra, mimetizzandosi con un giornalistese da Gazzetta dello Sport: “Siamo a un cromosoma dalla verità”.

Verrebbe da ridere percorrendo questo interminabile assolo dissennato ed egotico pure in absentia (pag. 204: “Quartiere Redona. Parco Turani. Non c’è nessuno qui. Nemmeno io”), e amen se il mio venisse preso per il riso sprezzante del filisteo di fronte al detective invasato di Letteratura, il quale si trincera dietro una “Y lettera scarlatta” (pag. 276) brandita a mo’ di croce mentre si agita anzi precipita come il Vil Coyote nello psicoanalistese tra le figure parentali della storia (“L’ignoto crolla sfinito in sua madre. Stiamo crollando sfiniti nella madre”, pag. 250). Sarebbe tutto ridicolo e basta, dicevo, se Genna non stesse trattando il true crime – come recita stavolta in un inglese tecnico-burocratico il sottotitolo del libro – cioè il caso di una bambina massacrata. Per fortuna, se ne ricorda nei farfugliamenti danteschi tra i titoli di coda del suo pastiche: “Nessun canto può restituire lei” (corsivo suo, pag. 397). Ma no?

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