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Allonsanfàn
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L’editoria, Sontag e il fascino delle SS

In editoria nulla si crea e nulla si distrugge. Morta e sepolta Liala, a dare man forte a Sveva Casati Modigliani ci pensano “le brillanti nuove voci del panorama rosa italiano” (così le definisce Mondadori Store) tra le quali spiccano Felicia Kingsley e Erin Doom, al secolo Matilde. Evitate di fare gli spiritosi (sento già i commenti): Fabbricante di lacrime di Erin Doom “è il libro più venduto in Italia nel 2022. Un caso editoriale da 450mila copie” dichiara il Libraio.it. Non si ricordano tirature di questa entità dai tempi dell’Umberto e della Susanna (Il nome della rosa e Va’ dove ti porta il cuore). Secondo alcuni spregiudicati critici del costume, il romanzo rosa (detto anche chick lit, letteratura per pollastrelle) sarebbe prodromico a letture più avvedute; onde per cui dopo aver sbocconcellato un congruo numero di Harmony, le nostre sarebbero smaniose di approdare a Moby Dick e alla Montagna incantata.

Seconda legge dell’editoria: un libro tira l’altro. Non nel senso delle ciliegie, bensì di uscite parallele. Un po’ come quando nel mondo dei giornali alla prima notizia luttuosa (un crollo, un incidente, un crimine efferato, un incendio doloso…) ne seguono almeno centosei analoghe tutte di fila. È il caso di Susan Sontag. In questi giorni è in vendita una biografia (Benjamin Moser Sontag. Una vita, Feltrinelli) mentre Nottetempo ha pubblicato Sotto il segno di Saturno, saggi che la Sontag pubblicò sulle riviste statunitensi negli anni ’70. È di quest’ultima raccolta di saggi che desidero parlare. Le biografie, anche se scritte da un premio Pulitzer come Moser, mi dànno sempre l’idea di spiare dal buco della serratura. La Sontag non è Madonna (nel senso di Ciccone). Sono le sue opere le cose che contano, non la fatica di vivere, la sfiga (è morta relativamente giovane e pure malamente) e men che meno i suoi gusti in fatto di capriole nelle lenzuola.

Terza (e, per il momento, ultima) legge dell’editoriai recensori di una miscellanea tendono a recensire tutti lo stesso pezzo. Io che recensore non sono eviterò di parlare di Sotto il segno di Saturno, il saggio dedicato al melanconico Benjamin. Preferisco scrivere due righe riguardo a Fascino fascista il cui soggetto non è un raffinato, sfortunato, tormentato pensatore berlinese, ma quell’astuta navigatrice della vita che fu Leni Riefensthal. Se non sapete cosa fece e per chi, pigiate il link: la scheda di Wiki è ben fatta e completa. Quel che mi interessa (e che, soprattutto, mi interessa comunicare) è l’attualità della lettura che la Sontag dà al fascino del fascismo. Meglio sarebbe dire al fascino delle SS. Un fascino intatto ancora oggi. Che la Sontag spiega in termini di erotismo sadomaso, di eccitazione provocata dall’armamentario simbolico del “teatro nazista”: divise, spille, stemmi, teste di morto, catene, oggetti che con incredibile successo (il saggio è degli anni Settanta!) vengono offerti da cataloghi specializzati e acquistati con entusiasmo anche (o prevalentemente?) da persone che nella Germania nazista sarebbero finite nei campi di sterminio con la stella rosa sul petto (apposte sulle casacche degli omosessuali). Un’estetica della morte – una cultura della morte – che segna in modo inequivocabile il lavoro della regista tedesca. Dagli anni in cui celebrava i trionfi del Reich e i fasti di Olympia, sino al reportage “etnologici” sugli ultimi Nuba, la tribù africana che vive per la lotta e non per l’amore. Spiega la Riefensthal: “Il più grande desiderio di un Nuba non è unirsi con una donna, ma diventare un ottimo lottatore, ribadendo così il principio dell’astinenza. Le danze cerimoniali dei Nuba non sono manifestazioni di sensualità, sono festival della castità, un modo per contenere la forza della vita”.

Susan Sontag nel 1979 (©Lynn Gilbert)

Avevo poco più di trent’anni quando guardai qualche spezzone del  Trionfo della volontà e di Olympia. Gli storici li considerano pietre miliari della cinematografia. Li trovai entrambi terribilmente noiosi. Ma so di non fare testo: ho qualche problema con le sfilate e le parate di ogni genere e grado. Riguardo al fascino che l’armamentario nazista continua a esercitare (anche Harry dei Windsor inciampò qualche anno fa in occasione di una festicciola tra amici) il problema non è tanto la patologia sadomaso che sottende – ognuno gode come vuole, o meglio come può – quanto, fateci caso, il fatto che il mondo è ancora incredibilmente pieno di nazisti dell’Illinois. Gente che la svastica oltre a indossarla come complemento d’arredo si diverte a marchiartela addosso. Sulla pelle intendo. Per fortuna (nostra e loro) gli ebrei non l’hanno scordato.

Nella foto di apertura, Leni Riefenstahl durante le riprese di Olympia (1936)

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