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Allonsanfàn
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Come assomiglia Baumgartner a Paul Auster, e anche a noi

È mattina. Sy (Seymour) Baumgartner, settantenne docente di Princeton, vedovo di Anna da nove anni, riflette sul saggio che sta scrivendo dedicato agli pseudonimi di Kierkegaard e indugia in cucina, disturbato dal pensiero di una telefonata da fare alla sorella Polly. Si scotta banalmente una mano con un pentolino e…

Paul Auster, con la calma e la prudenza educata di chi sa indicare e costeggiare gli abissi dell’esistenza, incomincia a edificare la sua nuova storia – parte come sovente da concatenazioni di eventi che paiono rimbalzi del caso – e insieme ricostruisce l’identità in crisi di Baumgartner, nel mentre che Baumgarter, anziano e stanco, triste e pensieroso, la ricrea per sé, cercando di non arrendersi al vuoto e al dolore.

Baumgartner è prigioniero del tempo, come tutti: mentre guarda a un futuro deludente e mortifero, ricorda i brillanti vent’anni, la libertà di studente, l’incontro con Anna… È la scomparsa di lei che ora gli fa capire il paradosso dell’arto mancante – quello che manca a Baumgartner, ad Auster, alla storia che dobbiamo conoscere perché diventi anche nostra; morendo, Anna ha lasciato Baumgartner come fosse un mutilato in grado di avvertire il dolore dell’arto amputato.

Domanda che nasce automatica. Che il romanzo, il racconto, il memoir, se pure lo fosse, la letteratura stessa sia (sempre) la trascrizione su carta del senso acuto di una mancanza, oppure l’ingannevole tentativo di completarla o almeno di dare un senso alla sofferenza?

Paul Auster si riconferma, se ce ne fosse bisogno, storyteller di rango e scafato giocatore in campo letterario – qui per esempio aiuta i suoi talenti, e approfondisce i temi, grazie alla riproduzione di testi immaginari, favolette morali firmate dal professore (a proposito di un condannato all’ergastolo della scrittura!) o inedite e limpide pagine di ricordi di Anna, che era traduttrice e poetessa.

Intanto Baumgartner, dopo esser precipitato dalle scale, si è rimesso in piedi. Forse. Incredibilmente riceve una telefonata pacificatoria dall’aldilà, su un vecchio telefono non connesso: è Anna che sta in non si sa quale Bardo e intima al vedovo di liberarla, sciogliendola dalle catene del rimpianto. Anche per questo, Baumgartner cerca prosaicamente in un secondo matrimonio, con la docente di cinema Judith, quella che gli sembra l’ultima chance amorosa. Insomma, la costruzione-ricostruzione del personaggio Baumgartner oscilla, mentalmente e pericolosamente, prima di trovare un po’ di pace (cioè di senso) nel passato remoto e nel futuro immediato. Nelle ultime pagine del romanzo, lo scrittore di Newark si vota a una leggerezza da commedia che è stata latente per tutto il testo…

La verità è che Auster – il molto post moderno Paul Auster, come dall’esordio gli dicono i critici – è forse l’abilissimo minore di un’eccellente antologia del Novecento, uno scaltro e straordinariamente inventivo divulgatore di incubi e di scacchi, di traumi e di spiazzanti coincidenze; preleva i suoi materiali dalle altitudini dove si muovevano ieri Beckett o Kafka, Cervantes (ricordo la Città di vetro) o Camus, pronto a confezionarli e a servirli al nostro livello di poveri uomini grigi per lo più lettori di best seller. Kafka e l’aggettivo kafkiano sono giustificati: i personaggi di Auster, è stato notato, si trovano spesso nella sgradevole sensazione di essere costretti a partecipare da semplici pedine a progetti imperscrutabili e misteriosi gestiti da qualcun altro (così come accade a tutti noi semplicemente vivendo…).

Comunque. Auster sarà pure un esistenzialista lacaniano, come gli dicono i critici – tra l’altro Baumgartner si è laureato con una tesi su Merleau-Ponty – ma è sempre piacevole da leggere e soprattutto sempre illuso lui stesso (forse) che esista la realtà – quello che noi chiamiamo reale – per i suoi personaggi sballottati dalle volubili giravolte del caso. Auster li rende efficacemente con una scrittura pacata e sicura, pulita ed elegante, che occupa la pagina con la naturalezza di chi può padroneggiare i più diversi toni, sempre lasciandosi dietro un non detto di tensione, di inquietudine, la paura dell’annichilimento, di un’apocalittica catastrofe per quanto privata – non per niente ci sono delle amputazioni vere, degli smembramenti addirittura, all’inizio del romanzo. La realtà sarebbe poi, capovolgendo la prospettiva, questa scommessa letteraria, affascinante e terribile, in cui si muovono appaiati Baumgartner e il suo creatore – oltretutto i due condividono almeno un nonno che ha fatto per di più una morte misteriosa, Harry Auster: approdato in USA dalla Galizia, appare e scompare a pag. 102-103.

Alla fine, penso che c’è un legame tra il muro da costruire, la trappola fatale de La musica del caso (Einaudi), e la lunga serie di romanzi e scritti ibridi tra memoir e saggio, racconto e riflessione, detective story metafisica o hard boiled, sia che trattino del rapporto con il padre o delle gesta di Unabomber. Penso anche che Auster at his best si riassume in quell’enciclopedia di possibilità che, a seconda dei bivi dell’esistenza e degli incontri fortuiti, forniva le vite parallele potenzialmente infinite del protagonista di 4 3 2 1 (Einaudi): è stato lo sforzo riassuntivo e titanico di una carriera di acutissima intelligenza. Chiuso quel libro, chiuso adesso anche Baumgartner, un po’ annebbiati come il vecchio professore, rimaniamo soli a farci domande senza risposta e se va bene a fantasticare per conto nostro, un po’ più leggeri e consci del nulla a cui andiamo incontro…

Paul Auster, Baumgartner (Einaudi). Traduzione di Cristiana Mennella

(Credit: Paul Auster signs book by kellywritershouse is licensed under CC BY 2.0.)

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