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Allonsanfàn
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Leggendo le Memorie di un pazzo di Nikolaj Gogol’

D’ora in poi mi ricorderò anche del consigliere titolare Aksentij Ivanovič Popriščin, strologante protagonista di Memorie di un pazzo di Nikolaj Gogol’ (ora in Piccola Biblioteca Adelphi 2024 – il testo apparve per la prima volta negli Arabeschi del 1835 per poi confluire nei Racconti di Pietroburgo nel 1842).

Mi ricorderò del suo delirio e accosterò la sua sventurata deriva a quella del poveraccio a cui rubarono il cappotto, il mite scrivano Akakij Akakievič. Questi cadde nella disperazione quando fu privato del sopraffino outfit (si direbbe oggi) che ne aveva decretato l’accettazione in società.

Protagonista di celebre racconti, il timoroso impiegato Akakij Akakievič è uno dei “nonni tutelari” del romanzo moderno – pure Dostevskij ha certificato di avere un debito col suo pastrano, dalle cui falde uscì tutta la letteratura russa del Secondo Ottocento – ma anche il činovnik Popriščin, il matto funzionario Popriščin, va preso molto sul serio e la sua disgraziata parabola potrebbe ritrovare voce addirittura in certe famigerate memorie del sottosuolo.

Comunque. Nikolaj Gogol’ si legge come un contemporaneo perché sceglie i suoi personaggi nella terra di mezzo cioè nella classe di mezzo, la classe che tra l’altro li legge i romanzi, in quanto – come si diceva una volta con un certo disprezzo – è l’unica che ha il tempo e la boria di porsi domande esistenziali e inessenziali sul proprio orizzonte, sul proprio aspetto esteriore e sul proprio decoro interiore.

Marx prevedeva che questa classe dovesse finire polverizzata o polarizzata, aggregandosi in alto o in basso. Invece, è capitato che abbia conquistato la scena con la sua pletora di impiegati, funzionari, passacarte e traffichini, un grigio popolo di grigi colletti giunto fino a oggi scrivendo i suoi messaggi senza senso non solo sui libri contabili, ma anche negli articoli dei giornali o nei claim pubblicitari, e che coltiva sogni in fondo stolidi, poiché ristretti e ininfluenti, d’amore e di potere.

Forse ho tirato troppo il chewing gum che stavo masticando, ma è certo che Nikolaj Gogol’ va messo tra i nostri astri di riferimento: trattato da filantropo verista, in seguito riconosciuto come autore grottesco senza pietà pur nelle peggiori tragedie (anzi!) – e un grazie va a Šklovskij – è stato poi nominato tra i precursori del realismo magico.

Gli da una mano la Pietroburgo protagonista dei suoi racconti, città che reclama letteratura da ogni angolo – vedi il Nevskij prospekt che lì “è tutto”, come assicura lo stesso Gogol’ nel racconto che prende nome dalla Prospettiva (e al quale dedica cinque estatiche pagine iniziali, senza bisogno di trama), e dove qui il fulminato činovnik Popriščin, credendosi il re di Spagna, si cela prudentemente al passaggio dell’Imperatore. Ma Pietroburgo è ovunque un luogo d’incanto – per evocarla, basta citare il periferico ponte Kokuškin riguardo al quale la nota di pag. 63 ripercorre augusti incroci “di penna” – Pietroburgo, sorta di magnifica super Venezia (cfr. Iosif Brodskij), invita quasi da sé allo spunto fantastico: non è forse la città dove, durante l’alluvione del 1824, un altro sventurato impiegato venne inseguito da una statua animatasi d’improvviso? Ne Il cavaliere di bronzo di Puškin la minacciosa statua è quella di Pietro il Grande che, detto per inciso, fu il primo responsabile della ipertrofica burocratizzazione russa…

Popriščin in un dipinto di Repin

Ma torniamo alla confessione di Popriščin, riedita e prefata a cura di Serena Vitale, con precise note e il plus in appendice de Il Vladimir di terzo grado, sorta di “commedia inesistente” che Gogol’ non completò perché sicuro di finire censurato.

All’improvviso, nelle frustrate Memorie che accolgono i desideri dell’ambizioso Popriščin si insinuano a tradimento mucche che comprano il tè e le missive di due educate cagnoline dalle quali, già oltre il punto di tracollo, Popriščin apprende che l’amata andrà in sposa a un altro.

Neanche la follia, però, procura un qualsiasi attestato di nobiltà, almeno d’animo, al nostro činovnik, perché non si dibatte tra i tormenti visionari o gli sprofondi demoniaci di un eroe romantico, ma piuttosto è ridotto a una pazzia misurata sul suo status di “piccolo uomo”.

Reincarnatosi in Ferdinando VIII, Popriščin alza grida strazianti per le sevizie che gli vengono inflitte in manicomio, acqua ghiacciata in testa, prima di chetarsi nel silenzio. Non avrà la rivincita di un Akakij che almeno compare postumo come un fantasma per le vie di Pietroburgo, strappando i cappotti dalle spalle dei passanti. Nemmeno il conforto della nostra compassione, poiché la simpatia dura solo un attimo nella pagina finale, prima che Gogol’ chiuda beffardamente il monologo con la domanda inaspettata di un uomo deragliato, fuori di testa: “Ma lo sapete che il dey di Algeri ha un bitorzolo proprio sotto il naso?” (nella chiusa non sottoposta a censura si trattava invece del Re di Francia).

Scriveva Gogol’ in una lettera a un’amica nel 1847 (morirà nel 1852): “Le mie preghiere sono così gelide!”, lamentando la perdita-mancanza di calore umano che fa amare il prossimo come se stessi: ma è forse questa carenza che ha reso acuminata la sua satira, rendendolo più grande come scrittore.

Appunto. Questo agile adelphino è il miglior incoraggiamento per riprendere in mano il capolavoro di Gogol’, a malapena salvo dal fuoco di una crisi mistica, Le anime morte – io ho ritrovato su una bancarella un‘edizione della Bur così vecchia che letteralmente si sfarina – senza dubbio, vale la pena aspettare l’arrivo in città di quel lestofante di Čičikov…

Nella foto in apertura, busto di Gogol’ a San Pietroburgo

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