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Allonsanfàn
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Quando Thomas Bernhard liquidò Ungenach

Non credo di avere una visione chiara da un punto di vista cronologico dell’opera di Thomas Bernhard. Forse neanche dell’opera in toto, divenuto io ormai preda come tanti lettori di consolidati luoghi comuni che poi servono a vaccinare contro l’angoscia imprevedibile delle sue pagine.

Ogni tanto, però, quasi per tenermi in allenamento, pesco in libreria un volumetto della Biblioteca Adelphi, meglio se fresco di stampa come questo Ungenach. Una liquidazione, tradotto da Eugenio Bernardi (cognomem omen) e apparso in originale nel 1968. Il titolo mi sembra in qualche modo famigliare finché mi accorgo di averlo già comprato in edizione Einaudi nel 1993: ad Adelphi non interessa segnalare la prima edizione italiana di un‘opera poiché ama troppo farla uscire ex novo, ripulita dalla polvere dei decenni. Amen.

Avrei dovuto essere più attento poiché “come Amras, Ungenach costituisce uno dei luoghi su cui Bernhard ha costruito nel corso degli anni la rete sempre più fitta delle sue ossessioni” (Bernardi per il risvolto Einaudi). “Luoghi concreti, rintracciabili sulla Carta geografica del Tirolo o del Salisburghese”, eppure ormai appartenenti di diritto alla mitologia personale dell’autore.

È comunque utile – a che cosa poi chissà – tornare a questo testo della prima maturità anche per la data che porta: il rap di Bernhard, ormai alle soglie dell’avventura teatrale, è già completamente formato, si adagia senza alcuna civetteria nei suoi prodigiosi loop, oppure si frantuma in aforismi inscalfibili, pietre nella corrente e sui passi di due fratelli che camminano per luoghi disabitati e spettrali – “Crediamo di aver vissuto e siamo morti a poco a poco” (pag. 97). Poiché proprio attorno al 1968 vede luce una generosa speranza di rivolta, ancora più limpidi e “liquidatori” appaiono l’arte e il pensiero dell’austriaco.

Mentre fa ripetere la parola Ungenach decine di volte al notaio Moro che accoglie le disposizioni testamentarie sulla immensa proprietà – di modo che la parola Ungenach cada nel discorso come un monito, una nostalgia, una sentenza, un dato di fatto, un suono – il proprietario, Robert Zoiss, restato solo sulla Terra, orfano anche del fratello Karl, se ne leva il peso dalle spalle disfandosene in modo beffardo: nella galleria quasi esilarante dei beneficiari, tra cui spiccano dementi o carcerati, l’austriaco conferma, se ce n’era bisogno, di non nutrire alcuna fede neppure nella sovversione. Forse non andiamo tutti in malora dietro il comunismo (suggerisce il notaio) come una volta dietro agli imperi?

Sono un pugno di pagine quelle di Ungenach che introducono al Bernhard maggiore. Nella prima parte, come in un atto teatrale assistiamo all’assolo di Moro – “L’esistenza è sempre stata qualcosa di estremo e la fatica di esistere è di per sé una fatica da megalomani” (pag. 19), dove il termine “megalomane”, che ritorna, è sinonimo sovrapponibile di “umano”. Burocrate biffatore dell’esistenza altrui, uomo di Ungenach anch’egli, cerimonioso e cupo, il notaio enumera, come da lontano, una serie non finibile di rovine, e le rammenta a Robert che tace.

La seconda parte raccoglie gli appunti del fratello defunto, con piccole interpolazioni. Karl è l’altro, il mancato sodale, che Robert scopre per lampi di disperazione: il discorso si spezza ora nei frammenti di un dolore personale, sensibile e insensato, in brandelli di lettere spedite e non spedite, memorie insignificanti, gesti faticosi, allucinati, insopportabili o impossibili come ogni presa o misurazione sia pure scientifica del reale: l’ossessione spesso si risolve in violenta invettiva. Bernhard mi sembra così uno scrittore immenso capace di ricreare il mondo, lontano da tutti gli smunti nipotini di Kafka (come ha notato Krista Fleischmann): è da leggere e rileggere in ordine o a caso, a cicli (i cinque libri biografici), a titoli, a pezzi, a blocchi, a schegge, ne basta una riga.

IL LIBRO Thomas Bernhard, Ungenach. Una liquidazione, traduzione Eugenio Bernardi (Adelphi)

A margine Per qualcosa di rapido e sensato su Bernhard, consiglio un’intervista alla germanista Micaela Latini su Sovrapposizioni. “Per Bernhard la scrittura ha il compito di misurarsi con il non-senso della vita, e non per restituirle un senso, quanto semmai per svolgerne il non-senso fino alle estreme conseguenze…”.

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