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Allonsanfàn
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Venezia77. The Wasteland di Ahmad Bahrami vince nella sezione Orizzonti

Lenti piani sequenza si chiudono su traffici e rivalità della piccola umanità che vive attorno a una fabbrica di mattoni sul punto di chiudere: il bianco e nero autoriale di Dashte Khamoush – The Wasteland di Ahmad Bahrami (1972) nasconde a lungo, prima di aprirsi in modo spettacolare, il paesaggio abbacinante che sta attorno, il deserto di una iraniana Terra Desolata.

“Nessuno vuole più i mattoni”, spiega il padrone, elegante e impassibile esecutore del profitto. Lo ripete una mezza dozzina di volte, in una scena che si svolge e riavvolge su se stessa. Il popolo della fornace lo ascolta come paralizzato.

La prima parte è questa: un giro di storie individuali che torna sempre alla medesima sentenza. Il padrone chiude la fabbrica, dice che per quanto è possibile salderà i debiti, parte per la città.

La seconda parte è il dramma dell’uomo di fiducia, Lotfollah, quarant’anni nella Wasteland, che passa da essere presenza necessaria per la comunità – ama e protegge una donna, incoraggia un matrimonio difficile, tratta con i curdi maltrattati – all’inutilità più annichilente.

Lotfollah è una figura complessa di servo, è sì la mano del capo, il suo tirapiedi, ma è pure, a suo modo, un virtuoso e vitale strumento di una foucaultiana microfisica del potere.

Quando questo smette di scorrergli attraverso e – negatogli dai giochi delle forze in campo – neanche l’amore lo salva, Lotfollah dalla luce – dal bianco del ghiaccio che porta all’inizio del film sul suo carretto – passa, in una lunga e memorabile sequenza, al buio assoluto.

Secondo lungometraggio di Bahrami, bello e accurato fino a perdere un po’ di forza nel racconto, The Wasteland rilegge, per un italiano che guarda, addirittura il neorealismo – un ungherese, invece, citerà di certo Béla Tarr… Leggo che Bahrami ha partecipato nel 2010 all’Abbas Kiarostami’s Filmaking Workshop e che ha firmato nel 2017 Panah, storia di un bambino giudizioso che vive nel deserto iraniano, speriamo che non sia una versione infantile del vecchio e ormai inutile Lotfollah.

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