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Venezia77. In Residue di Merawi Gerima, l’impossibile ritorno a casa

Merawi Gerima, al primo lungometraggio, Residue, ha vinto il premio dell’Audience allo Slamdance Film Festival 2020 e in qualche modo ha raccolto il testimone del padre, guru dell’indie, muovendosi – per farla semplice – tra ritorni a casa, quello del suo protagonista Jay, e la ricerca, se non di radici, di un significato nello stare al mondo.

Merawi è figlio del filmmaker e docente Haile Gerima, etiope emigrato negli States nel 1967 e autore di almeno due opere memorabili, Harvest: 3000 Years (1976) sulla tragedia del Paese d’origine, e Ashes and Embers (1982), che racconta di un Viet vet rientrato in patria.

Ma parlavamo di Jay. Rieccolo nei suoi vecchi quartieri: da Los Angeles, dove ha studiato cinema, ripiomba dopo quindici anni a Washington DC, con in testa l’idea di girare un film verità. Qui è cresciuto con la sua piccola banda di amici, ma già al primo impatto, cioè appena parcheggia il pick up, trova subito qualcuno (bianco) che gli intima di abbassare la radio. E i primi fratelli con cui parla, e a cui chiede innocenti informazioni, lo depistano, perché in fondo non si sa mai.

Jay il puro, già mezzo convinto di suo che l’intero mondo è un ghetto – “e piantala con queste cazzate Motown” gli intima a un certo punto la sua ragazza -, ha la testa piena di scene d’infanzia, che lo spettatore condivide tramite sfuocati filmini super8, ma scopre presto che gli antichi sodali lo snobbano e lo trattano da fighetto. Dion e Demetrius sono finiti uno in carcere e l’altro chissà dove nel Maryland; per non dire di Delonte, preda di demoni tutt’altro che astratti.

Nota sociologica: dalla visita ai genitori, abbastanza imborghesiti, ma cool e con l’immagine di Malcolm X tutt’ora al muro, Jay impara che il nemico, diventato imbattibile negli anni, si chiama gentrificazione. Agenti immobiliari in azione 24/7, di persona o al telefono, gli paiono più feroci (quasi) dei poliziotti. Ci metterà più tempo – circa metà film – a capire, al di là dei cliché Motown, appunto, che cosa vuol dire essere neri a Eckington.

La via crucis di incidenti e di delusioni dell’aspirante regista si ferma solo un attimo davanti agli occhi di Dion, ammanettato, con cui si svolge il più bel confronto di un film vitale e generoso, coraggioso e pulito, che finisce come doveva finire, in malora, con una disperata e insensata corsa nella notte.

In Residue, Merawi ha girato davvero nei suoi quartieri, portando in strada parenti e amici a recitare con professionisti come Obinna Nwachukwu-Jay. Ha detto: “Se ascolti il mercato sembra che sia impossibile fare un film con pochi soldi. Io ho semplicemente deciso di prendere in mano la cinepresa. Le parti del film che amo di più sono quelle piene di imperfezioni… tutti gli sbagli hanno serendipity”. Vero.

A Venezia, il film è stato presentato nelle Giornate degli Autori.

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