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Il vecchio lottatore: i nuovi racconti di Antonio Franchini, che si è portato Hemingway in battaglia

Il primo testo di Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani fornisce un buon esempio del tono della raccolta. Ne LE LEONARDIADI, una pacata accettazione degli anni che sono passati accompagna i gesti “professionali” di un genitore nella scocciatura di una due giorni di giochi a cui partecipano i figli.

Sono prove atletiche che fanno intuire la propria posizione nel mondo a chi gareggia, e in fondo servono pure ai grandi, assiepati negli stand da fiera della manifestazione: a loro tocca la corsa finale non competitiva.

La gara non è la consumata metafora dell’esistere, spiega il narratore, avvezzo all’attività agonistica degli sport da combattimento, ma è solo una gara e per questo ancora più unica e importante rispetto ai gesti di una vita adulta – o al tramonto – in cui si può tirare a campare.

Durante lo svolgimento delle Leonardiadi, con una serie di associazioni, ricordi e riflessioni, Antonio Franchini porta il lettore accanto a sé in un campo sportivo che – poco ci manca – per calibrati spostamenti progressivi è diventato il luogo dell’Armageddon, la sede di un inevitabile giudizio universale.

Credo di capire che un tempo “emingueiano” sia quello in cui tutto può ancora essere. Le tipiche ellissi di Hemingway – con cui Franchini si confronta in tutto il libro – lasciavano in pagina solo ciò che conta. Nel “postemingueiano”, invece, che detta così sembra un’era geologica, butta male, devi far finta, abbozzare, esiste al più una sensibilità da arto mancante, che può essere lo stimolo per non accettare la resa.

La lotta che lo scrittore pratica fin da ragazzo, la discesa pericolosa dei fiumi in canoa, il raccoglimento di un viaggio che da memoria privata diventa scrittura condivisa sono le povere armi – pur se somigliano nell’essenza alla magnifica spada creata da Sergio Altieri nei suoi incredibili romanzi – per combattere ancora.

Nell’ultima pagina di UN MARLIN IMBALSAMATO, la vista del pesce – catturato, come si scopre, il giorno stesso in cui è nato Francesco Esente, avatar dell’autore – da un lato lascia inavvertita la comparsa sensuale di una tedesca in bikini, dall’altro convince Esente di essere per sempre uscito dalla possibilità di seguire la vita che avrebbe voluto per sé.

Ne GLI ULTIMI DUE ITALIANI DI CAPORETTO, apprendiamo del resto che lo stesso Hemingway, nume tutelare inarrivabile – poiché inattuale – di queste pagine, viveva con una “… nostalgia preventiva, come sapesse che il mondo che vedeva presto non ci sarebbe stato più”.

Capiamo grazie alla scrittura pulita e solenne di Franchini il significato di quest’apprensione, camminando sui luoghi di una vecchia battaglia, in un racconto-reportage di viaggio e di guerra, di realtà vere o come apprese in sogno nel corso degli anni.

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Dopo un decennio di stop, aspettavo con molta curiosità il ritorno di Franchini ai racconti per così dire “puri”, come quelli lontani di Camerati, di Quando scriviamo da giovani – appena trovato in edizione Sottotraccia su una bancarella – e di Acqua, sudore, ghiaccio. E questi a quelli sono speculari, in forma di chiasmo, perché se i primi erano sul diventare grandi, questi forse sono sul diventare vecchi o peggio.

Leggendo il secondo testo della raccolta, PESCA ALLA TROTA IN CARNIA, ho pensato non fosse così. Franchini sembra ripescare suggestioni dalle sue storie di formazione, complice un campeggio sloveno e una giovanile atmosfera introspettiva.

L’età del narratore consente però di svelare non solo il passaggio alla condizione adulta ma la vita intera di due amici che si perdono e si trovano, nell’eccezionalità e nella normalità degli andirivieni, nei momenti di acqua e di fuoco della gioia e del dolore.

È un testo, mi pare, addirittura “postsoldatiano” se è vero che nel tardo incontro del narratore con Luciana, antica fiamma dell’intero gruppo di ragazzi, si avverte l’eco di fraintendimenti che fanno pensare a Il vero Silvestri.

Ecco. Sarà la casualità un po’ ottusa in cui è scandita la vita, con i suoi abbracci e le sue lontananze, e il lume finale acceso dalla morte a dare un altro significato alle pagine iniziali di questo racconto – superando lo schermo di stoicismo del narratore, adulto capace di sopravvivere a equivoci e beffe del destino, resta da credere che tutto, cioè le cose davvero importanti di un percorso, alla fine guizzino per pochi attimi come le trote speciali di cui i protagonisti sono andati a pesca da giovani.

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Quello che ho scritto finora non ha particolare senso se non contempliamo l’idea ma soprattutto la pratica della lotta, l’attività agonistica che percorre tutta la narrativa del fighter Antonio Franchini.

È lui IL VECCHIO LOTTATORE del titolo, anche se il lungo racconto finale così intitolato e ambientato in un mondo maschile dai confini indefiniti, tra Italia dialettale e Sudamerica immaginifico (c’entra Gadda, nominato altrove?), narra le peripezie di Aurelio Silva e di altri agonisti, veri o immaginari, persi dietro ossessioni tic e manie – quelle di tutti gli uomini -, che si riassumono per loro nella frequentazione delle palestre del globo.

L’anziano Aurelio Silva, in quella carneficina che è la vita, cerca riscatto o requie nei movimenti rituali del combattimento, dove può addirittura cogliere il kairos, oppure sopravvivere grazie a uno “stile” che altro non è, lo si diceva sopra, che il proprio posto nel mondo.

Così come nel GRANDE FIUME DAI DUE CUORI, dedicato ai grandi amici morti, Sergio Altieri e Roberto Bonelli, Errante-Franchini sa che nella sua vita di figlio, marito, genitore, tutto è discutibile, ma qualche “gesto esatto, pulito” gli è riuscito scendendo tra le rapide in canoa. Anche scrivendo, aggiungiamo noi.

Il “vecchio lottatore” Antonio Franchini (Napoli, 1958), uomo che ha letto tutti i libri e sa leggere pure l’acqua di un fiume, non è mai patetico, scendendo nell’agone, perché assomiglia pagina dopo pagina al più grande scrittore italiano in carica.

IL LIBRO Antonio Franchini, Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani (NN Editore)

Riguardo la foto sulla cover: nella lotta non serve lo “sguardo della tigre” ma la fissità inquietante dell’occhio della gallina.

 

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