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Gifuni a teatro con il memoriale di Moro: «Un patrimonio collettivo ma dimenticato»

Al Piccolo Teatro Grassi di Milano le luci si abbassano in sala e Fabrizio Gifuni esce sul palco.

Sta per andare in scena Con il vostro irridente silenzio che apre la stagione e che Gifuni dedicherà ai lavoratori dello spettacolo, in sofferenza per la crisi causata dalla pandemia.

Prima di iniziare, però, l’attore si rivolge agli spettatori. Ricorda quel passo di storia recente che interpreterà da solo e che fa ancora male: i 55 giorni della prigionia di Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse in via Fani a Roma il 16 marzo 1978 e fatto ritrovare cadavere il 9 maggio in via Caetani, nel bagagliaio di una Renault 4.

«Tutto» dice Gifuni riferendosi al suo lavoro «è cominciato con lo studio delle carte che Aldo Moro scrisse durante quei 55 giorni, o quanto meno di quella parte delle carte che sono pervenute fino a noi. Nasce da una proposta di Nicola Lagioia, direttore del Salone del libro di Torino: mi chiese di fare un lavoro su Moro per l’edizione 2018 che si inaugurava proprio il 9 maggio, nel 40ennale della morte. In tanti si erano occupati di Moro, a partire da Sciascia, Garboli, Calvino, Mario Luzi, aggiungere altro non mi andava. Da subito ho pensato fosse interessante lavorare sulle sue stesse parole».

Le carte che Aldo Moro scrisse, o quanto meno quella parte delle carte che sono pervenute a noi: Gifuni dà forza a questa sua frase, a indicare che alla verità sul sequestro del presidente della Dc mancano ancora tanti elementi.

Un concetto che l’attore ribadirà in un incontro nel chiostro Nina Vinchi, dove ricorderà l’importanza della memoria e della testimonianza. Ma dove esprimerà anche lo sconcerto di fronte al fatto che a distanza di 42 anni quelle carte tanto cercate («c’è chi è morto nel tentativo di ritrovarle») e tornate alla luce in tempi diversi, le ultime nel 1990 («e non è un caso che fosse un anno dopo la caduta del muro di Berlino»), non siano riconosciute patrimonio collettivo come di fatto sono né studiate nelle scuole. «Poche persone le hanno davvero lette, in molti hanno scelto di dimenticarle».

Aldo Moro, durante la prigionia, parla, ricorda, scrive, risponde, interroga, confessa, accusa, si congeda. Si rivolge ai familiari, ai colleghi di partito, ai rappresentanti delle istituzioni; chiede disperatamente aiuto; annota brevi disposizioni testamentarie. E insieme compone un lungo testo politico, storico, personale, il cosiddetto memoriale, partendo dalle domande poste dai suoi carcerieri.

«Le lettere e il memoriale sono le ultime parole di Moro» ricorda Gifuni. «Un fiume inarrestabile che si è cercato subito di arginare, silenziare, mistificare, irridere. Ossessione per quelle persone che le volevano perché probabilmente temevano che Moro avesse rivelato segreti di Stato. Furono le carte il vero oggetto della trattativa, non la vita del presidente democristiano».

Sul palco del Piccolo sono sparsi tanti fogli, a indicare gli atti di accusa e le ombre di una prigionia che ancora occupa il palcoscenico della nostra storia. C’è anche un piccolo mucchio di polvere bianca, che Gifuni si sparge tra i capelli, a ricordo del ciuffo bianco di Moro. Poi, per quasi due ore e senza mai interrompersi, senza mai una pausa, legge le lettere e il memoriale. In una tensione crescente: il tono inizialmente sofferente, accorato, fiducioso si fa sempre più disperato, a esprimere il dolore e la rabbia del prigioniero consapevole della fine.

Noi che ascoltiamo, ci troviamo a rivivere quegli anni bui.

«Nei 55 giorni del sequestro» sottolinea Gifuni «Moro costringe tutto l’arcobaleno delle pulsioni umane, dalla tenerezza allo struggimento, dalla rabbia alla disperazione, dal ragionamento politico alla riflessione pacata. Affina la sua lingua, mantenendo una prosa straordinaria. In quel contesto lui, persona disperata, che sa di morire, riesce a coniare espressioni linguistiche come “con la vostra mistica inerzia” e “con il vostro irridente silenzio”».

Non solo. «Le pagine finali del memoriale sono un incontro-scontro tra un Moro-Amleto e un Andreotti-Riccardo III, dove il Riccardo III con la sua gobba ricorda anche fisicamente un compagno di partito nei confronti del quale il presidente Dc usa parole che fanno venire la pelle d’oca per la sincerità con cui vengono esposte e per quello che ci consentono di capire. Cos’è un uomo di potere? C’è un uomo di Stato buono e ce n’è uno cattivo? C’è una tendenza al bene e una al male? A Giulio Andreotti Moro scrive: “Lei ha sempre fatto il male nella sua vita. Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia”. Poi però aggiunge di non aver voluto guardare quel male, perché gli faceva paura, perché stava accanto a lui. E’ qualcosa di enorme. Io resisto alla tentazione di dire che è qualcosa che i politici di oggi si sognano. La lente del tempo fa ricordare il buono, magari tra qualche anno scopriremo che ce n’è anche in questa nostra epoca così opaca».

Con il vostro irridente silenzio sta girando per i teatri italiani dal 2018, il titolo riprende una frase scritta da Aldo Moro in una delle ultime lettere, indirizzata al segretario della Dc Benigno Zaccagnini ma mai recapitata. «Una lettera in cui urla, come ha fatto più volte, la sua rabbia per la seconda tortura che sta subendo. Moro non è Moro, si dice, è stordito, impazzito, plagiato, drogato, vittima della sindrome di Stoccolma. La stampa, i segretari di partito, l’opinione pubblica sconfessano le sue parole, i politici fanno muro sul fronte della cosiddetta fermezza, anche Papa Paolo VI “fa pochino”, come sostiene Moro stesso. E poi grida: “Perché non mi credete? Perché mi fate questo?”. La sua storia è una storia di tradimento. E di una rabbia profonda che è sconvolgente ascoltare in un uomo tanto mite. Nella prima lettera a Cossiga scrive: “Tiratemi fuori di qui perché se mi costringono a parlare potrebbe essere sgradevole e pericoloso per molti di voi”. E verso la fine: “Vorrei restasse ben chiara la responsabilità della Dc con il suo assurdo e incredibile comportamento”.

Lo spettacolo non deve essere chiamato spettacolo. «E’ un esperimento» precisa Gifuni. «E’ un meteorite che piove da un altro spazio e da un altro tempo forse molto lontani ma che io credo ancora molto vicini. Sera dopo sera, con una comunità di persone che si radunano in teatro, con gli spettatori, ne misuriamo la potenza. Questa cosa ci riguarda o non ci riguarda più? Ha a che fare o non ha a che fare con noi? Questa pagina importante della storia del nostro Paese è del tutto andata perduta o risuoneranno ancora l’indignazione, lo sgomento, la passione di chi ascolta, e si accenderanno i riflettori anche e soprattutto sulla politica dell’oggi e del domani?».

Mentre sullo sfondo del palcoscenico appare una foto dei leader democristiani in preghiera ai funerali “senza bara” di Aldo Moro (la famiglia rifiutò le esequie di Stato), le luci si spengono sulle parole indirizzate da Moro alla moglie Noretta: «Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti e amici con immenso affetto e a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

Il pubblico – tanti sono della generazione che ha vissuto quei giorni – applaude. Gifuni apre le braccia, quasi a volerci abbracciare tutti.

Sapranno i giovani confrontarsi con questa testimonianza, gli chiedo. «E’ un’altra parte della scommessa» risponde. «Prima del lockdown, in tante repliche a Roma erano presenti scolaresche, e la reazione è stata molto buona. C’è una tragicità in questa vicenda umana e storica che arriva anche a chi in quegli anni non era nato. Grazie alla forza del teatro».

Credit foto di apertura: Musacchio, Ianniello & Pasqualini

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