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Agnès Varda, dal pane al cinema, due anni dopo

Con questa abitudine sbrigativa di etichettare i mestieri in una parola, non andiamo tanto lontano. Regista o scrittore o falegname o cuoco o architetto. E così, per descrivere il lavoro, o meglio le “imprese quotidiane” di Agnès Varda, di etichette ne servono un bel po’. Regista, fotografa, artista temprata del secolo scorso, la vera definizione che mi piace usare è la più semplice: lei era una raccontastorie.

Due anni fa il 29 marzo ci lasciava la pioniera dell’essere donna all’epoca delle belle ragazze in tacchi a spillo, la regista di Senza tetto né legge (1985), da rivedere con urgenza in tempi di reclusione prolungata, oppure di Il verde prato dell’amore, che sarebbe piuttosto La felicità (Le bonheur, 1965): in anticipo parlò del poliamore alla francese, della crudeltà dell’amore che passa dal pomeriggio d’estate alle foglie autunnali, morenti. Censurato all’epoca nonostante l’Orso d’argento a Berlino, oggi è un film verità. E poi c’è forse il suo film più famoso, Cléo dalle 5 alle 7 (1962), che tenta in due ore di raccontare le peripezie, reali o mentali (che cosa importa?!), di tutto l’universo femminile, che con passione – l’unico mezzo a disposizione di noi piccole bambine del Secondo sesso, così per citare la connazionale Simone de Beauvoir – ha paura di morire.

Anche Agnès, come ogni artista appassionato di vita, ha dialogato con il tema della morte, usando bene le sue parole: diceva che “una perdita esiste per sempre”. Si riferiva al suo gatto Nini, ma anche al suo amore Jacques Demy.

Agnès donna. Di quelle autentiche e senza fronzoli, parlava di preparare una mostra di fotografia con le stesse parole con le quali raccontava ai suoi vicini di aver provato mille impasti diversi per il pane. Fare il pane era per lei sfornare sculture farinacee quotidiane.

La si vedeva nel suo quartiere, in rue Daguerre a Parigi, con sacchi di farina e oggetti di falegnameria, rientrare nella casa al piano terra con la facciata color vinaccia, nel XIV arrondissement di Parigi, dove dappertutto ancora oggi si respira l’odore del gesso delle sculture, e si vedono atelier d’arte a ogni angolo.

E poi questa signora è stata anche architetto, progettando la Capanna del gatto (Cabane du chat, Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi, 2016) che si trova a sinistra dell’ingresso di un museo parigino dedicato all’arte contemporanea, con un giardino retrostante delizioso, silenzioso.

La regista progettò più e più capanne, dove di solito custodiva copie dei suoi film girati su pellicola vera, che ormai non si usa più, oggi tutto è digitale, invisibile. Lei li ha racchiusi nei suoi scrigni di legno, mostrando l’archetipo dell’architettura e della sua funzione primitiva, proteggere, riparare, vincendo la gravità, quindi il tempo.

Lei il tempo l’ha vinto, lasciandoci una capanna piena di arte profondamente umana perché semplice, o viceversa. I suoi film, le sue fotografie, le sue interviste e le sue opere sono dappertutto.

In scrigni più digitali come la piattaforma MUBI, o YouTube, si trovano anche i suoi film e le diverse interviste, lezioni di cinema che negli anni l’hanno portata in tutto il mondo, e anche in Italia.

Sempre simpatica, ci ha anche fatto tanto ridere, con i capelli a scodella bicolore e quel portamento di chi è seduta a casa sul divano con amici, e non di fronte a una platea.

Merci Agnès.

(Credit: Agnes Varda 2 Poll by Pink Cow Photography, File:Agnes Varda-0522.jpg” by Harald Krichel)

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