Questa è la cronaca di una chiacchierata molto speciale. Al teatro Strehler di Milano Paolo Cognetti, scrittore, premio Strega nel 2017 per Le otto montagne, ora in libreria con La felicità del lupo (Einaudi), incontra Marco Paolini, autore, attore e regista di tante narrazioni di forte impatto civile, da Il racconto del Vajont a Il Sergente, che per tre settimane a Milano ha portato in scena Sani, intreccio di storie e riflessioni sul tempo presente.
Milano. Lo scrittore che racconta di montagne e l’autore di un teatro che di montagne ha parlato tanto si incontrano (per la prima volta) su un palco. Da Paolo Cognetti e Marco Paolini ci si aspetterebbe un esordio su vette, neve e rifugi. Invece Cognetti chiede a Paolini: «Che rapporto hai con Milano?». E lui un po’ esita: «Sono un provinciale. Milano la studio e mi attrae immaginarne la traiettoria, il percorso. Il vantaggio di stare via e poi tornare è quello straniamento che mi fa cogliere le prime impressioni. Non ho trovato qualcosa di straordinariamente significativo questa volta». Non è un complimento. E allora Cognetti: «Nel tuo spettacolo citi Gaber. Sei mai stato al Famedio, al Monumentale, dove è sepolto?». «Ci sono stato la prima volta per i funerali di Dario Fo» gli risponde Paolini. «Mi sono guardato attorno e ho pensato a come deve essere di notte, ho immaginato il casino che fanno tutti insieme quelli che sono là, Grassi, Gaber, Jannacci, Fo… Insomma, lo rendono uno dei posti più vivi di Milano».
I lupi. Barry Lopez, saggista e scrittore americano, morto il giorno di Natale dell’anno scorso, è l’autore di Lupi e uomini (Piemme), che Paolini definisce «Il più bel libro sui lupi mai scritto. Lopez si interroga intorno al comportamento che hanno le prede nei confronti dei predatori. Un alce può tenere a bada più lupi grazie alle sue corna, eppure tra gli animali al pascolo ce n’è sempre uno che fa una cosa stupida, si mette a correre. Ed è perduto. Lopez racconta dello sguardo che c’è tra preda e predatore per scegliersi. Esiste un linguaggio tra loro che fa sì che decidano insieme di giocarsi quell’ultima corsa».
«A me piace immaginare cosa il lupo pensa di noi» dice Cognetti. «In Valle d’Aosta, dalle mie parti, è tornato. I primi lupi sono stati avvistati nel 2015, oggi ce ne sono una cinquantina. Quando capita di incontrarli l’impressione è che si domandino chi siamo diventati noi uomini, se siamo ancora il loro nemico. Perché ci ricordano così, ma ora non li attacchiamo più, non li cacciamo più. È come se, osservandoci, cercassero di capire cosa fare, se scappare, se aggredirci, o se stare lì dove sono. Il rapporto con gli animali selvatici è molto forte nella vita in montagna, una delle principali differenze dalla vita in città. Lucky (il cane di Cognetti che lo accompagna ovunque e che dormirà beato sul palco per tutto il tempo dell’incontro allo Strehler) era abituato a uscire al mattino dalla baita, fare lunghi giri e tornare quando gli pareva. Da quando ci sono i lupi non si allontana. Li sente, lo sa».
Che il lupo e anche l’orso siano animali di montagna «è una leggenda» ribatte Marco Paolini. «Sono animali della pianura padana, siamo noi che li abbiamo spinti sempre più in alto, e loro tornano giù. A volta – e lo dicono i forestali che monitorano soprattutto quegli orsi che hanno il collare – ci sono insospettabilmente vicini». Ma hanno paura «e questo mi sorprende sempre» dice Cognetti. «Quando incontro un capriolo mi verrebbe da dire: no, aspetta, io non ti faccio nulla. Quando incontro un camoscio lui mi guarda da lontano e scappa. Non succede con gli stambecchi, protetti dalla fine dell’800. Dopo un secolo non temono più l’uomo. E questo fa pensare che se smettessimo di dare fastidio agli animali, potremmo camminare nei boschi e salutare le lepri e i caprioli, come nell’eden».
«Io però preferisco così» sostiene Paolini. «Gli orsi che mangiano i rifiuti dai bidoni hanno capito che lì c’è cibo e non lo cercheranno più. Mio fratello mi ha mandato un video di una volpe che gli si avvicina, lo guarda, resta ferma, come un cane gli chiede cibo. E mio fratello che fa, resiste? Questo però significa togliere alla volpe la diffidenza nei confronti dell’uomo, l’unico strumento di difesa che ha e che dovrebbe continuare a mantenere».
I maestri. Mario Rigoni Stern, di cui quest’anno è il centenario della nascita, è maestro per entrambi. «Io ti ho conosciuto all’inizio degli anni 2000 grazie al tuo spettacolo Il Sergente, tratto da Il sergente nella neve di Rigoni Stern» dice Cognetti rivolto a Paolini. «È morto nel 2008 e non ho fatto in tempo a conoscerlo personalmente. Avrei voluto essere uno dei tanti che andavano a trovarlo in montagna. Ti invidio, perché tu hai potuto». «Per andare nei boschi, Rigoni Stern doveva uscire all’alba: solo così riusciva a evitare i turisti in agguato, i lettori fedeli» ride Paolini. «La sua famiglia era straordinaria. La moglie Anna era “un gendarme” capace di mandare via chiunque, esclusi i figli. Era lei che lo proteggeva, perché lui non si difendeva. Rispondeva con un biglietto scritto a mano a tutte le lettere che riceveva». Anna Maria Rigoni (aveva lo stesso cognome del marito, sposato nel 1946) se ne è andata a novembre a 99 anni. «Quando ho pubblicato Le otto montagne» ricorda Cognetti «mi hanno accompagnato ad Asiago a conoscerla. Lo studio di Mario era come lui lo aveva lasciato, e ho visto un biglietto che Primo Levi, nella sua ultima settimana di vita, gli aveva mandato. Insisto da tempo in Einaudi affinché si lavori a un epistolario tra Primo Levi, Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli, un “trifoglio”, come loro si sentivano, che si scriveva lettere che sarebbe bello recuperare. Questi sono maestri». E a Paolini chiede: «Chi sono i maestri viventi oggi della tua generazione?». E qui la questione si complica, perché per Paolini i maestri «Sono anche quelli morti che mi continuano a parlare, oppure persone viventi che fanno mestieri completamente diversi dal mio da cui “prendere delle cose”. Raymond Carver (morto nel 1988) è uno con cui interagisco continuamente, con la sua arte della sintesi, del racconto breve». «Un maestro morto non si può più interrogare, non si può più contestare, un morto non dice più cazzate…» gli ribatte Cognetti. E Paolini: «Tu hai avuto un maestro che hai potuto contestare?». «No, ma mi piacerebbe tanto» risponde lo scrittore. «Io» dice Paolini, «vorrei qualche spettatore in più che mi contestasse perché mi manca la critica. Se il mio pubblico si convince di aver fatto del bene al pianeta perché ha visto uno spettacolo in cui si parla della necessità di far del bene al pianeta, beh… è un bell’equivoco. Più che di maestri io sento bisogno di discussioni anche feroci tra pari».
Le montagne. Qual è la tua montagna? È la domanda che entrambi si rivolgono in conclusione. «Le vette feltrine, perché sono ancora abbastanza selvatiche, poco servite da rifugi, meno frequentate perché scomode» risponde Paolini. «Quelle della Valle d’Aosta» dice Cognetti che vive a Estoul, frazione poco sopra Brusson, in Val d’Ayas. «A pochi metri da casa c’è un ruscello. La Valle d’Aosta è piena di torrenti e di cascate e di sorgenti. Sono le mie mete, perché è l’acqua, non dimentichiamolo, l’elemento della montagna».