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Tre anelli di Daniel Mendelsohn: scrivere sull’esilio

Ho incontrato Daniel Mendelsohn leggendo una recensione. Non cito l’autore. Fa parte della compagnia di giro che se le dice e se le canta scambiandosi aggettivazioni (indimenticabile, imperdibile, il meglio degli ultimi dodici mesi) come chicchi di granturco per attirare i piccioni.

Ho usato il verbo incontrare perché gli autori si incontrano quando vogliono gli dèi. Come le storie d’amore non sono previste programmazioni. È un’epifania, avviene solo nella virtualità discreta della pagina, mai – assolutamente mai – nei cafarnao dei festival e dei reading. Saper narrare è già un miracolo, perché mai pretendere che l’autore sappia anche commentare con intelligenza ciò che ha scritto e – iddio ne scampi e liberi – persino sappia leggere con maestria le sue pagine? Scrivere e recitare, si sa, sono due arti lontane tra loro come il tofu dal gorgonzola. L’autore le cui pagine ci hanno incantato, sgomentato e financo tramortito per sapienza e bellezza, ha il sacrosanto diritto di essere un individuo che scorda la patta dei pantaloni aperta, una donnetta dai capelli unti come la coda di un sorcio, un’alcolizzata, un tabagista dal fiato puzzolente, una drogata, un violento o, più semplicemente, una persona che mai e poi mai vorremmo come vicino di casa. Quello che conta è l’opera. Il feticismo dell’autore lasciamolo gli adolescenti.

Tornando a Daniel Mendelsohn, la recensione riguardava il doppiamente scandaloso Tre anelli (Einaudi). Duplice scandalo: il libro è straordinario come il prezzo fissato dall’editore (16 euro per 103 pagine), un incentivo bello e buono al furto con destrezza oltre che un’assoluzione morale preventiva. Non ho usato l’aggettivo “straordinario” con leggerezza. Di solito lo faccio quando devo scrivere qualcosa di prezzolato riguardo a un prodotto di un’azienda. Perché dunque Tre anelli sarebbe extra-ordinario? Innanzitutto perché è un animale fantastico come una chimera. Memoir, saggio e opera narrativa al tempo stesso: come le salse riuscite bene gli ingredienti sono amalgamati con tale maestria che il risultato finale è superiore al sapore sopraffino delle singole parti. Infine perché, come insegna la Prima Legge di Borges, come tutte le opere di valore induce a mutare la percezione di ciò che abbiamo letto prima.

Tre anelli affronta il tema della composizione nella quale la “narrazione sembra divagare abbandonandosi a una digressione” e il distacco dalla linea narrativa principale è “segnalato da una formula fissa o da una scena ricorrente”. La digressione, precisa Mendelsohn, “si rivela in realtà un cerchio” poiché “la narrazione finisce col ritornare alla storia nel punto esatto in cui se n’era discostata”. Una vertigine degna del miglior Borges, appunto.

I tre anelli che Mendelsohn incontra (nuovamente, un incontro) sono quelli composti da tre esuli: Erich Auerbach (ancora lui), l’autore di Mimesis in esilio a Istanbul per sfuggire ai nazisti; François Fénelon, l’autore de Le avventure di Telemaco quale seguito dell’Odissea, caduto in disgrazia per le velate critiche al Re Sole, e il narratore tedesco W. G. Sebald, autoesiliatosi in Inghilterra dopo la scoperta della fervente adesione all’hitlerismo da parte del padre. E proprio in Sebald la narrazione digressiva, la fuga senza fine di stanze che si aprono su altre stanze in un apparente infinito che si conclude circolarmente là dove aveva avuto inizio, trova il suo ultimo e miglior interprete.

La cicatrice che svela Odisseo all’anziana nutrice è un esempio perfetto di digressione circolare: Auerbach in Mimesis prende le mosse proprio da quell’episodio come pure da Le Mille e una notte e, restando in ambito novecentesco, la Recherche stessa è una cattedrale costruita sulle fondamenta narrative della digressione infinita; e ancora Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Lo stesso Tre anelli (memoir, saggio e opera narrativa) è una continua digressione su ciò che l’autore ha scritto prima (Gli scomparsi e Un’Odissea) e sulla funzione salvifica della scrittura, l’arte che consente di raccontare se stessi mentre all’apparenza (un’apparenza più sottile di una carta velina) si finge di parlar d’altro.

Daniel Mendelsohn è una strana creatura: è un ircocervo, un classicista, critico letterario, traduttore, insegnante che sa anche narrare. Evento più unico che raro: non mi viene in mente nessun altro se non Nabokov. Grandissimo scrittore, fra i grandi del Novecento. Ma le sue lezioni sulla letteratura russa, di cui mi piacerebbe parlare prima o poi, sono geniali quanto stravaganti al punto che è lecito chiedersi cosa mai avranno imparato i suoi (straniti, straniati?) poveri studenti americani.

Un’ultima annotazione. Non avrei mai incontrato Mendelsohn se avessi letto i fastidiosi soffiettoni firmati Foer, Chabon e (iddio ci scampi e liberi) Coetzee nell’edizione de Gli scomparsi pubblicata in Italia nel 2007 da Neri Pozza (nel 2018 è stato ripubblicato da Einaudi) che affastellano la quarta di copertina come le medaglie di un generale sovietico a riposo. Difficile che i narratori, bravi o meno bravi, siano buoni giudici del lavoro altrui; se grandi o addirittura grandissimi sono talmente concentrati e talvolta tormentati dal proprio demone della scrittura da non essere liberi nel valutare l’altrui. Se modesti, o non addirittura indecentemente mediocri, difficile che non siano rosi dall’invidia o resi ciechi dall’impossibilità di comprendere l’altrui grandezza. Secondo Bertolt Brecht il peggior nemico dell’elefante selvaggio è l’elefante domestico. Temo che il peggior nemico della scrittura sia invece quella cosa che va sotto il nome di “industria editoriale” che deve produrre narrativa con la stessa continuità con cui in Romagna si lavorano le fragole di serra. Peccato che fuori stagione sappiano di poco entrambe.

Il libro. Daniel Mendelsohn, Tre anelli (Einaudi)

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