UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Sundown. Perdersi con Tim Roth nel tramonto del Messico

Sundown. Neil Bennett (Tim Roth) sciabatta ad Acapulco, dove ha fatto il check in (si fa per dire) in un hotel scassato, si piazza in una spiaggia affollata di gente del posto e beve una birra via l’altra coi piedi a mollo, poi rimorchia quasi per inerzia una bella ragazza che vende bibite a un passo dal mare, la sera se la porta in albergo, e il giorno dopo è di nuovo piazzato sulla spiaggia con la birra e i piedi a mollo… Sembra intenzionato, quasi muto e col viso inespressivo (la classica faccia di Roth stile prime puntate di Tin Star, da inglese impenetrabile), a proseguire la sua routine indefinitamente, in una sorta di pacata e insensata deriva.

Solo pochi giorni prima Bennett era in vacanza insieme ai famigliari – Charlotte Gainsbourg attaccata allo smartphone come la solita workaholic e due adolescenti appena birichini – in un lussuoso hotel per facoltosi turisti, cioè i turisti preservati dalla realtà del Paese, che vedono esclusivamente il mondo pittoresco della plebaglia locale, tra indigeni che si tuffano dagli scogli per la mancia, chitarristi che fanno musicaccia Kitsch, barmen alla catena di montaggio dei margaritas. Ma un evento traumatico ha costretto al rientro in patria i suoi “cari”, e Bennett no, lui ha trovato chissà perché una scusa – la perdita del passaporto, che in verità non ha affatto perso – per mollarli all’imbarco e fermarsi nell’“altro” Messico. Per affidarsi enigmaticamente all’onda della vita.

Non dirò altro della trama, percorsa da visioni allucinate (applausi!) e improvvisi lampi di violenza (idem), perché Sundown di Michel Franco ci invita a un percorso e a una riflessione che è più interessante ed essenziale fare al momento, sebbene mascherinati, su una poltroncina di cinema.

Michel Franco è il quarantenne regista messicano di Nuevo orden, Gran premio della giuria a Venezia 2020, dove descriveva una Città del Messico degradata e spietata in cui il gap tra le classi sociali è progressivamente e drammaticamente divaricato – la trama: un matrimonio dell’alta società interrotto da un gruppo di persone armate – e nel primo film girato in inglese ha già avuto alle sue dipendenze un efficace Tim Roth: in Chronic (2015), era un uomo goffo ma bravissimo e coinvolto nel suo lavoro di infermiere che assiste i malati terminali. Oggi Franco chiude il cerchio del suo appeal per gli estremi con un thriller atipico – Sundown è anche questo, al grado zero, oltre a essere un film sospeso tra il vero e il falso, tra ciò che è e ciò che appare, tra la flemma dei miliardari e la furia degli straccioni, tra la vita e la morte nientemeno, non concedendo allo spettatore – o forse ero di cattivo umore io – neppure un barlume di speranza.

SPOILER A proposito del modo di raccontare di Franco. Come in Nuevo orden e come capita davvero, è l’intrusione improvvisa, violenta e ottusamente non contemplata, del dramma nella nostra collaudata routine – come fosse l’esecuzione di uno sconosciuto sulla spiaggia eseguita da due killer che arrivano su una rombante moto d’acqua, come accade per esempio con la diagnosi infausta di un esame medico – è l’intrusione, dicevo, che incendia una non-storia e che ne crea una, rendendo improvvisamente vaghe e vane le normali esistenze di cui magari siamo normalmente e chissà poi perché così soddisfatti.

I social: