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Allonsanfàn
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Non si fruga nella polvere. Faulkner e the sound del vecchio sud

Fu in tempi giovanili che, prima di scoprire Jewels e altri giochini da computer, una sera attaccai a leggere The Sound and Fury di William Faulkner (1897-1962). Mi trovavo impiegato in un palazzaccio di vetro alla periferia di Milano, alle prese con interminabili attese, prima di liberare per la tipografia i pezzi di un magazine femminile di indirizzo popolare. Credetti che l’attesa, la quale poteva durare fino alla mezzanotte, andasse occupata costruttivamente, magari studiando.

Mi sembrava un’idea intelligente e un po’ snob per ingannare il tempo, attendendo che i correttori di bozze mi ponessero gli ultimi dubbi sugli impaginati da spedire in stampa – dubbi sul fatto che avessi o avessimo fatto errori di ortografia nello scrivere i consueti luoghi comuni.

Fu così che mi trovai di botto trasferito a Yoknapatawpha, contea immaginaria nel profondo sud americano e sede di un drammatico racconto per me di assai difficile decrittazione.

Quale distanza del resto divideva l’italiano basico e scolorito che avevo appena usato per lavoro, la piatta e semplificata scansione delle frasi, e il testo quasi enigmistico di William Faulkner: la prima delle quattro parti in cui è diviso The Sound and Fury si svolge il 7 aprile 1928 e ha per voce narrante l’idiota Benjy Compson. Risultato: abbandonai subito la copia originale del libro e la sera dopo riprovai con l’Oscar in italiano, intitolato L’urlo e il furore, credo fosse già la versione di Vincenzo Mantovani.

Mi accade così di ricordarmi quelle sere a Segrate e di ripetermi quanto diversi possono essere i livelli di comunicazione affidati alla scrittura da soggetti in differenti condizioni mentali, questo mi accade, dicevo, tutte le volte che rileggo il nome Yoknapatawpha e mi imbatto nella figura retorica del “narratore inaffidabile”, cosa che in realtà siamo poi un po’ tutti e sempre, anche al di fuori del campo della letteratura – capita per esempio quando “un personaggio è totalmente immerso all’interno del contesto e altera la realtà descritta, deformandola o accentuandone degli elementi particolari” (lo leggo su Wiki, che ha sostituito il Wellek e Warren).

Comunque. Le porte di Yoknapatawpha mi si sono riaperte in questi giorni, avendo incominciato a leggere Non si fruga nella polvere – Intruder in the Dust, tredicesimo titolo di William Faulkner per Adelphi, traduzione di Roberto Serrai. È un romanzo più tardo di L’urlo e il furore, essendo apparso per la prima volta nel 1948, un anno prima che Faulkner ricevesse il premio Nobel. Naturalmente ho ritrovato il flusso di coscienza – in versione assolutamente godibile – e un narratore a suo modo infido ma questa volta in senso buono, addirittura ottimista: dal punto di vista del ragazzo bianco Chick, infatti, è possibile salvare la pelle a un vecchio nero, accusato ingiustamente di omicidio e tanto conscio della disparità razziale vigente nella contea da essere restio a chiedere aiuto almeno a chi non ha negli occhi l’innocenza.

Così Chick, ed è il suo errore fecondo, si mette in gioco e a cavallo per aiutare Lucas Beauchamp, prigioniero a forte rischio di linciaggio. Meglio se saranno dalla sua parte e gli daranno una mano a riesumare il corpo della vittima, per quella che oggi si chiamerebbe una perizia balistica, l’amico nero Aleck Sander e una vecchia un po’ suonata.

Non ho trovato subito in queste pagine, da sofisticato murder mystery, il sound shakespeariano che dà il titolo ed è forse un abstract di The Sound and Fury – essendo la vita “un racconto detto da un idiota, pieno di rumore e furia, che non significa nulla” (urlo credo sia una traduzione addomesticata ma efficace di sound) – ma poi mi sono fatto più attento e ho scovato qualcosa di simile, mentre in Non si fruga nella polvere intravediamo “…la prigione e in quel momento, con un lampo e un balenio e un turbine di luci e il rombo di un motore subito irrisorio contro la vastità della notte e la città deserta eppure insolente, un’auto che arrivava di corsa da chissà dove e girava intorno alla piazza; una voce, la voce di un giovane che cacciava un urlo – niente parole, nemmeno un grido: un urlo pieno di significato e privo di senso – e l’auto continuò a correre intorno alla piazza, completando il cerchio per tornare da dove era venuta e scomparire”.

Faulkner, ritratto da Carl Van Vechten (1949)

Nonostante siano trascorsi vent’anni – dal 1928 al 1948 – credo che quel vecchio sound trovi la sua eco in questo urlo “pieno di significato” perché “privo di senso”. Non so spiegare, invece, come mai Faulkner, pur restando sé stesso, mi risulti adesso piacevolmente leggibile, al punto da avermi riportato alla memoria le pagine nitide e le immagini hollywoodiane di To Kill a Mockingbird-Il buio oltre la siepe. Forse sbaglio ma la Maycomb di Harper Lee, la quale amava Faulkner, potrebbe benissimo trovarsi sulla mappa di Yoknapatawpha – oggi si può persino  chiedere allo smartphone come si pronuncia questo nome impronunciabile. Di certo, però, ho provato un pizzico di nostalgia per i quesiti insolubili che mi pose tanti anni fa L’urlo e il furore se non per quelle sere ottuse passate a scrivere frasi semplificate in un palazzo di vetro.

Nota a margine su Benjy e me Io che lavoro a fine anni Novanta per un settimanale popolare e Faulkner che fa parlare Benjy, il cosiddetto ritardato mentale di The Sound and Fury, abbiamo un problema in comune. La riduzione del numero delle parole usate, seppure con scopi diversi, quasi antitetici. Io cerco di esprimere in un italiano “comprensibile a tutti” anche gli argomenti complessi, per farli intendere a un pubblico che si suppone poco alfabetizzato – in realtà, a meno che non sia un asso, ma forse neppure, provoco un impoverimento nella comunicazione e una banalizzazione dei contenuti. Faulkner, invece, si esprime con un vocabolario ristretto per fare intendere come è complicato il mondo, in specie quello visto da un idiota. Più specificamente in Faulkner “…si nota… l’uso preponderante dei verbi di movimento basilari come, go e stop: una restrizione di termini dettata da un chiaro intento autoriale, ossia di rimarcare la percezione limitata, e comunque quasi sempre quantitativa e non mai qualitativa, che ha Benjy delle azioni altrui” (Andrew Tanzi in Tradurre). Conclusione? Drastica: forse ero pagato per comportarmi da idiot.

Nella foto di apertura, The Sexton di Andrew Wyeth

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