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Allonsanfàn
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Viaggi. Animali fantastici e dove trovarli in Monferrato

È uno di quei giorni che la terra sprigiona dal suo ventre vapori che paiono fatui fumi, destinati ad avvolgere chiunque si avventuri su strade incognite per finire mani, piedi e pensieri dentro l’incanto di un sogno. Così quando ad Asti busso alla porta dell’hotel come un viandante stordito quel giusto per aver appena abbandonato le rituali coordinate del mio peregrinare metropolitano e traversato al contrario quella che Pavese chiamava “la porta del mondo”, ho la sorpresa di sentirmi rispondere che a quest’ora – hic, evidentemente, nel Monferrato, alle nove e trenta – è presto anche solo per annunciare d’essere arrivati. (Ma, buttata giù dal letto, la nostra ospite, dopo un interiore rimbrotto che le sfiata evaporando tra i denti perché il messaggio comunque arrivi a destinazione, a questi, i soliti milanesi – avrà pensato – che fanno dell’efficienza un credo, ci offrirà, gentilissima, direbbero sempre a Milano, per cacofonica consuetudine, l’automatica miscela arabica necessaria – hic et nunc allora e all over the world – per cavalcare in gorpcore outfit le e-bike che ci attendono all’inizio del tour). Cos’è un viaggio d’altronde, anche solo se assomiglia a una sgambata di due giorni, se non l’occasione di perdersi di nuovo – anche se solo a poco più di un’ora dalle abitudini – e incrociare destini, modus vivendi, fole, accenti che ci obblighino a riconsiderare traiettorie che diamo per scontate?

È un clima insolito al quale le profezie suggeriscono di abituarsi per tempo, e anche quando la strada sale, dolcificata dall’elettrico assistente motorio, è piacevole lasciare che il paesaggio entri nella pelle, perché se la foschia non accenna a scomparire, il foliage umido sprigiona i suoi sentori, la luce soffusa favorisce l’abbandono dei sensi e la terra tutto attorno sembra ingannata da questo lungo sbadiglio che prolunga un’estate autunnale (o è piuttosto un primaverile inverno?) in un regno fiabesco dove gli scrigni romanici si aprono solo con gigantesche chiavi di ferro previa richiesta alle vicine pompe di benzina o con digitali codici di prenotazione online.

L’humus perfetto per mettersi a esplorare le pietre da cantoni che emergono dal fondo di mari remoti col loro carico di conchiglie e fossili, avanzi di balene bianche un tempo miraggi per impavidi navigatori, che rivelano all’occhio più attento lo scolpito bestiario fantastico che alle corinzie foglie di acanto, mandorle, cornucopie, rose e aruspici grappoli d’uva intreccia la misteriosa presenza di lepri bislunghe, rapaci mostruosi o aquile più simili a candide gallinelle della DreamWorks, serpenti, leoni, cavalli palmati, cani che sputano fiamme col capo rivolto all’indietro (forse ispirazione a Luigi Broggini per il cane a sei zampe dell’Agip?). E tra seducenti bifide sirene, tritoni, telamoni, santi e cavalieri, o sereni cherubini, come a San Secondo di Cortazzone o a Montiglio a San Lorenzo o a Vezzolano, è un attimo trasecolare da imperatore a gargoyle.

Il bicromatismo romanico nell’alternanza di mattoni rossi e arenaria sembra suggerire le righe di un centenario block notes dove curiosi personaggi prendono vita nei racconti di chi ha familiarità con queste pietre esposte al sole radente sulle creste di colline più armoniosamente ondulate di quelle delle vicine Langhe e del Roero, un panorama di bricchi e verdi milonghe che invita alla degustazione, a lunghi convivi nei giardini o all’interno di luminose locande che rivivificano cascine e conventi. E sono tantriche figure colte in kamasutrici accoppiamenti come sui templi del Madhya Pradesh, vergini in trono, allucinate testoline alla Modigliani, mammelle rotanti o curiosi omini impegnati in ardite scalate su tetti che si aprono ai cieli.

Avviluppati come le figure umane sui capitelli nei tralci di vite, si trova riposo dal pellegrinare cicloamatorio in pranzi che rivisitano alla piemontese (e perciò abbondando per tradizione) il concetto di light meneghino e nelle meditabonde sedute pomeridiane dove si attende il calare del sole sull’orizzonte crestato degustando paradisiache batterie di vini complessi (sull’onda del trend wine-chic milanese che ora premia la Barbera si approfondisce la conoscenza del Freisa e del Ruchè): sapori e profumi divengono racconto mentre come divinità ctonie si scende e si sale dagli infernot, le cantine scavate nel suolo dove prima si è posato l’arco di un tetto in mattoni, là dove le grandi botti sono giganti a custodia di spiriti preziosi e a ogni nascita si murano bottiglie dedicate in attesa della mescita che celebri maggiore età o matrimoni.

Non mi stupisco, allora, a cena, di trovare sulle pareti del Campanarò di Asti i quadri di Paolo Fresu: un cielo capovolto di colori dove il fantastico si sposa al realismo magico, il doppio al vero. Il cibo rinsalda il legame con l’identità e del vino gettata via la schiuma resta la sincerità.

Qui nel Monferrato lo chiamano senza timore: buon vivere.

Foto e video di Gabriele Nava

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