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Allonsanfàn
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The Tracker e i film e le canzoni del nostro destino

Il perché di tanto in tanto mi torni in mente questo film, mi è completamente oscuro. Di film ne ho visti tanti, come tutti noi d’altronde. Qualcuno ogni tanto riaffiora, ma questo insiste più di tutti gli altri. Si tratta di The Tracker. Si insinua improvvisamente nei miei pensieri. Cosa avrà mai ancorato nei miei ricordi per ripresentarsi in questo modo?

La storia è cruda, la narrazione essenziale, i protagonisti senza nome recitano ruoli non edificanti ma purtroppo universali. Solo la guida si eleva. Il suo sguardo intenso ci costringe a interrogarci e a vivere il suo tormento lungo il sentiero. La colonna sonora mi rapisce e con quella strana sonorità mi trasporta in un altrove che riesco solo a immaginare. Sarà per quella voce di Archie Roach che si porta dentro il dolore di un intero continente. Sarà quel ritmo secco del rullante, che nel brano più emblematico All men choose the path they walk (tutti gli uomini scelgono il loro cammino) marca il passo e, quando si interrompe, prendi fiato anche tu per orientarti, prima che il ritmo riprenda portandoti alla fine del brano.

Il titolo della canzone suggerisce una responsabilità che in qualche modo induce a interrogarsi. Dubito comunque che sia vero che le scelte nella vita dipendano solo da te. Forse non è vero mai. Quando mai possiamo dire di essere veramente noi a scegliere il sentiero che vorremmo percorrere e quanto invece viene deciso e condizionato dalla sorte? Una questione che mi ha fatto riflettere a lungo. Forse troppo… e poi c’è questa faccenda di tracce e sentieri, che devo dire mi ha sempre intrigato molto. Fin da piccolo.

Già da bambino correvo a leggere Tex Willer o Zagor a casa di Giuliano. Suo padre non si perdeva un numero. Tex mi piaceva. Mi piaceva soprattutto quando narrava di guide abilissime nel seguire le tracce di qualcuno. Individuavano inspiegabilmente un percorso nel paesaggio anonimo, notando semplicemente pietre spostate sul sentiero, crini di cavallo impigliati tra i rovi, un rametto spezzato. Riuscivano anche a capire che c’erano state delle impronte, ma queste erano state cancellate con dei rami. Seguivano imperterriti un invisibile filo di Arianna fino a raggiungere il loro obiettivo. Io ero dentro al racconto, mi immedesimavo in quelle guide instancabili, sforzandomi di capire come riuscissero a scovare quegli indizi. Sognavo di essere una di loro e speravo di diventare altrettanto abile e intuitivo.

A quel tempo, quasi tutti i giorni, noi quattro ragazzi di Zanco (piccola frazione di Villadeati in provincia di Alessandria), cioè l’intero reparto maschile racchiuso nell’arco di tre anni, ci inoltravamo nei boschi del Bricco di San Lorenzo, alla ricerca della quotidiana avventura. Era il nostro parco giochi, dove potevamo trasformarci facilmente in cacciatori, indiani, trappers, cow boys e soprattutto esploratori. Dipendeva dall’ispirazione del momento, dal giornalino appena letto o dal film visto la sera prima. Equipaggiati con archi, lance, tomahawk rigorosamente autocostruiti e con l’immancabile coltellino acquistato nella consueta gita parrocchiale a Crea, partivamo all’avventura. Sentirsi guida indiana era un attimo, bastava lasciare la strada di campagna, infilarsi nel sottobosco seguendo un immaginario sentiero, alla ricerca di tracce, che mai sapevi dove ti avrebbe portato, ma forse proprio questa era la parte più intrigante. Percorrevamo diverse centinaia di metri finché, arrivati in un luogo apparentemente simile a tanti altri, ma che inspiegabilmente destava il nostro istintivo interesse, ci fermavamo. Lo valutavamo attentamente e se lo consideravamo adeguato, iniziavamo a costruire il nostro insediamento. Come una microscopica legione romana, costruivamo rapidamente il nostro rifugio. In pochi minuti creavamo una struttura con rami che venivano ricoperti da fronde, corteccia e foglie secche.  Poi ci rintanavamo all’interno cercando di rimanere in silenzio almeno per una manciata di minuti.  Spiavamo, tra le fronde, quello che sarebbe potuto succedere intorno. Immaginavamo di veder passare chissà quale insolito animale, o il temibile Treitoc. Di tanto in tanto qualcuno bisbigliava: “Ho visto muoversi qualcosa” A quel punto smettevamo perfino di respirare, scrutando attentamente i dintorni, alla ricerca di un minimo movimento o di un rumore. Scrutavamo, scrutavamo, senza peraltro riuscire a vedere alcunché. Chissà quanti animali selvatici ci saranno stati accanto, commiserandoci benevolmente, per poi proseguire nei loro abituali percorsi. I boschi erano pieni di vita e lo eravamo anche noi. Questo non favoriva certo il nostro intento. Non riuscivamo a stare zitti che per un tempo misurabile in una manciata di minuti, già quello ci pareva lunghissimo, dopodiché riprendevamo a ciarlare.

Il tempo passa in fretta, ed è successo anche a noi quattro. Abbiamo smesso di infilarci sotto le fronde e in un attimo ci siamo scoperti adulti. Per fortuna alcuni frammenti infantili rimangono intrappolati dentro di noi, riemergendo solo di tanto in tanto. Sono ormai parte di noi stessi e possono manifestarsi anche dopo decenni. E io so che c’è qualcuno di quel drappello che si inoltra ancora in quei boschi. Cosa starà cercando?

Archie Roach, qualche anno fa

Ma ecco che ritorna a farsi sentire la musica e la voce penetrante di Archie, forse a riportarmi sul sentiero. Rifletto e mi chiedo chi dei quattro abbia potuto scegliere consciamente il proprio percorso e quanto invece sia stato deciso e condizionato da altro. Avremmo, forse, potuto trovarci tempo fa e riflettere assieme su tutto questo. Ora non è più possibile. Uno di noi se ne è andato troppo presto. Avremmo potuto interrogarci su come mai, partendo da un’infanzia molto simile, abbiamo percorso strade molto diverse che ci hanno inevitabilmente allontanato. Senza perderci mai. Dev’essere stato per quel patto mai dichiarato, ma in qualche modo sempre sottinteso, sancito sotto le fronde di quegli alberi che, nonostante le distanze e gli anni, il nostro legame è rimasto intatto. Anche con chi non c’è più. È fin troppo facile, quando ci si incontra, ritrovare negli incroci degli sguardi gli echi di quell’infanzia.

Ma Archie insiste, continua a catturarmi e con quella voce penetrante mi porta lontano, nel suo continente… che non conosco e posso solo immaginare. Sì, solo immaginare, anche se in qualche modo ho potuto conoscerne dei brandelli portati fino a noi da nuovi amici d’oltreoceano. Forse questa amicizia aprirà un nuovo sentiero che sarò curioso di percorrere. Non c’è come confrontarsi con altri, molto distanti e diversi da te, per renderti conto di come alla fine siamo tutti uguali. Tutti intenti a proseguire sulla nostra strada e mai sicuri di quale potrà essere la nostra prossima destinazione.

Ma Archie Roach insiste… insiste…

“Some men have reached their destination/ Finding their own serenity/ Some men lead others ’til they recognize/ That all men choose the path they walk”

“Alcuni uomini hanno raggiunto la loro destinazione/ Trovando la propria serenità/Alcuni uomini guidano altri, finché non riconoscono/che tutti gli uomini scelgono la propria strada”

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