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Allonsanfàn
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Petrucci, Il cerchio perfetto: giallo d’arte con efferato Genius Loci

In un futuro prossimo, Roma bolle sotto un cielo giallastro e Milano è cieca di fitta nebbia: l’emergenza climatica è la normalità di un paese al collasso, quella sociale invita all’edificazione di muri interni alle città. Tra le classi alte si reagisce come si può, raffinando il culto effimero del lusso, esibendo il potere per il potere, coltivando il corpo in un rilancio new age. Il concepimento dei pargoli contempla intanto soluzioni vieppiù tecnologiche e impersonali.

Si svolge sotto questi chiari di luna la storia della solitaria e orgogliosa Irene, trentenne senza ideali. Immobiliarista attirata dalle imprese difficili, gode freddamente a piazzare all’asta dimore storiche, finché un giorno è chiamata dalla capitale al nord per vendere al miglior prezzo una bizzarra abitazione, frutto di un discutibile genio.

È una villa milanese di tre piani, nella immaginaria e molto buzzatiana via Saterna, e risalente agli estrosi anni Ottanta: quadrata fuori e rotonda dentro, la casa ha al centro una colonna di vuoto illuminata dall’alto da un lucernario, che in una cascata d’aria scende fino a fondarsi su una simbolica pietra.

Mentre Irene comincia a capire che la villa ha un efferato Genius Loci, e non solo perché ospita una squinternata squatter (che si chiama Lidia come la defunta ex padrona di casa!), noi leggiamo a capitoli alterni e procedendo a ritroso nel tempo – come se il racconto fosse soggetto alla forza di gravità del passato e, a proposito di gravità, nell’antefatto qualcuno precipita nel vuoto – leggiamo che cos’è successo proprio in via Saterna nel lontano 1986, tra un ambizioso architetto, sposato e con prole, e una ragazza non si sa se troppo giovane, troppo infelice o troppo ricca.

La scelta di temi attuali e à la page funziona in campo letterario, poiché invita l’autrice a giocare ora con un genere ora con un altro. Il dissesto climatico e il pericolo criminale collegano Il cerchio perfetto alla fantascienza sociologica da fine del mondo (a proposito: Venezia sarà sommersa dalle acque nel 2045!), cui attiene pure il tema delle nuove burocratiche frontiere della maternità, legato alla letteratura di riflessione al femminile, tanto fortunata in questo periodo.

Il vero motore del libro, però, la colonna d’aria centrale che lo anima, è la storia d’amore e di Genius Loci, che porta il romanzo a accarezzare, oltre alla suspense del giallo e al difficile romanticismo rosa di tempi aridi, un côté fantastico, poiché a meno di un terzo del testo sorge il sospetto che una storia d’amore possa essere davvero anche una storia di fantasmi.

La love story (o le love stories) si avvalgono di un’ambientazione architettonicamente colta e accuratamente illustrata: la casa di via Saterna, in stile Bosco verticale boeriano, cioè ideologica e sentimentale, è buona coprotagonista delle fiammate di passione, delle congiunzioni improvvide, dei tradimenti e delle disperazioni dei protagonisti di una volta e di adesso. Il tema della casa è riflesso  con abilità da Petrucci in quello della maternità, che occupa i pensieri della dubbiosa Irene: in fondo, aver figli è il “farsi ospitale del corpo”. Lo stesso Duomo di Milano, in una buia passeggiata di Irene e Lidia tra anime in pena e posti di blocco delle forze dell’ordine, fino a una decaduta e spettrale Villa Necchi, sembra alla donna il “ventre di una nave madre”.

Nel cielo delle ispirazioni, Petrucci, classe 1990, qui al secondo romanzo, ha dichiarato molta roba cool (sia detto senza ironia) e appropriata al caso: si sentono nel testo echi di L’incubo a Hill House di Shirley Jackson e, non solo per il nome della via, di Poema a fumetti di Dino Buzzati, più quelli di un film del Tornatore più cupo, La miglior offerta – c’è una certa affinità di trama – e di una colonna sonora raffinata, il Quatuor pour la fin du temps di Messiaen. Mi pare che Petrucci sposti via Saterna vicino al Castello, mentre nel Poema a fumetti è una porta per l’Aldilà che si apre tra Moscova e via Solferino.

Non do voti all’italiano, né sto a menarla su certo grigiore cosmopolita di lingua e sintassi dei romanzi nostrani – non vorrei mai passare per un fan del ministro Sangiuliano. Sfuggono, invece, ogni tanto ripetizioni e espressioni infelici, contratte, da colpo di sonno dell’editor, per esempio “Raggiunge il tavolo, lo pensa dimenticarla”, a pag. 10, o “Da lontano Dario la sente guardarlo…”, a pag. 180. Mentre ho dovuto cercare sul dizionario Treccani l’unico scarto linguistico, il verbo “aggranfiare” – una falsa pista, comunque, per dinosauri spitzeriani.

Un’ultima considerazione: ne Il cerchio perfetto, come in innumerevoli romanzi italiani, ogni mistero, dal più grande all’infimo, viene spiegato nel finale, a mo’ di giallo classico, di modo che non rimanga il minimo dubbio per chi legge su quello che ha letto, quasi che a lasciare aperta una finestra (ossia un’interpretazione), il lettore possa prendere il raffreddore, oppure, non sapendo spiegarsi chissà che, possa divenire preda dell’ansia. Sembra un pregio, questa chiusura esatta di conti, ma forse è un limite (di poetica) – dipende da che cosa chiediamo a un romanzo nel 2023.

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