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Ritorno ai Sessanta con il Marcel ritrovato di Gramigna

Che cosa ci possiamo aspettare da un romanzo italiano, Marcel ritrovato, scritto da Giuliano Gramigna (1920-2006), critico letterario molto engagé – seppure sul Corsera che però non era il Corsera di oggi – e pubblicato nel lontano e abbagliante 1969, proprio sul finire dei cosiddetti formidabili anni Sessanta?

Di tutto, anche troppo; e cercherò di spiegarlo, partendo da quell’engagé, così fuori moda: Gramigna era un francesista, che si occupava dell’animo umano e ne narrava le vicissitudini (anche ma non solo) attraverso le poetiche e le filosofie più ardite in uso Oltralpe; di certo, amava Proust, il nouveau roman e l’école du regard di Alain Robbe-Grillet e compagnia scrivente, di certo frequentava la psicoanalisi circonfusa dall’aura fumogena di Jacques Lacan.

Gramigna era il più ostico per prosa e giudizi tra i critici del Corsera – questo lo ricordo bene e forse ciò accadeva per una sua costante attenzione alle ragioni dell’Es (come si diceva una volta) – eppure il suo Marcel ritrovato, edito in prima battuta da Rizzoli e ora ripreso lodevolmente dalle edizioni Il ramo e la foglia, mi appare famigliare, persino semplice da decifrare, pur nel suo scartare di continuo, quasi fosse biffato per me da tante altre vecchie letture.

Nei Sessanta, gli scrittori avevano promosso a protagonista dei loro romanzi l’intellettuale, il quale era spesso in rapporto celato/esibito con il loro reale Ego. Così, un’avanguardia di personaggi cólti aveva sostituito gli umili di spirito e di censo ritratti nella stagione neorealista del dopoguerra, e si agitava nei testi criticando l’alienante Italietta del Boom, che costringeva tra l’altro l’intellettuale a lavori prosaici e anche precari – insegnare o scrivere per i giornali, giornali spesso borghesi, tradurre a più non posso, svendere le sue preziose parole alla pubblicità…

Il Bruno del romanzo di Gramigna lo trovo lì in mezzo a una laureata pletora di scazzati e scontenti, un perfetto inetto (sveviano) e un ipernevrotico: è uno scrittore già fallito in partenza che vive di réclame, ed è fin dall’inizio pronto a subire il torrenziale e travolgente gioco narrativo di Gramigna. Questi stacca e congiunge ambiguamente le figure di Autore e Narratore – come nota in postfazione Ezio Sinigaglia – cambiando d’improvviso il passo dalla terza alla prima persona, e si moltiplica pure aggiungendo dettagliate note a piè di pagina – dove domina con ogni evidenza il Gramigna critico, il quale può sbizzarrirsi da par suo anche in una dettagliata e informata recensione dei postriboli meneghini d’antan.

Comunque. Marcel ritrovato, come usava una volta e ora non usa più, è un serissimo divertimento per il lettore, impiantato su un canovaccio di trama – questa: Bruno deve cercare l’amico nemico Marcello (e insieme se stesso), scomparso in terra di Francia.

Poca roba? Infatti: l’impegno di Gramigna sta altrove, nel mutare continuo di stili e di registri, nel plurilinguismo e nel flusso di coscienza, nelle divagazioni continue e nelle giravolte della forma che arrivano persino al cut-up. Esempio: descrivendo una serata di Bruno a casa della sorella, per lunghissime pagine Gramigna si distrae e ci distrae riproducendo in calco la conversazione stupida e inzeppata di luoghi comuni di un milieu di borghesi molto milanesi. Oppure ferma di colpo il fluire della narrazione – come un frame di pellicola, fino al rischio di bruciarlo – sul particolare di una foto ricordo o sul ciglio di una strada del quartiere Garibaldi descrivendolo nelle minuzie, secondo i collaudati costumi della scuola dello sguardo. E qui mi accorgo di non avere ancora usato per Marcel ritrovato il prefisso “meta” che, con o senza il trattino, si adoperava per i romanzi che riflettono sul loro farsi proprio mentre noi li stiamo sfogliando, e quindi ci chiedono un supplemento di partecipazione se non la necessità continua dell’empatia – certo, gli scrittori di una volta erano più complicati e più esigenti…

Giuliano Gramigna è questo e esageratamente di più perché il suo meta-romanzo (o forse anti-romanzo?) è pervaso dall’ironia ed è post modern anzi post modern all’ennesima potenza e senza remore: il gioco citatorio è pressoché infinito.

Giuliano Gramigna

A margine. Ho ritrovato in Bruno il malumore esistenziale che si riscontrava a quei tempi in tanti scrittori e nei loro personaggi un po’ anzi molto frustrati e arrabbiati (viene subito in mente il picco del Bianciardi bombarolo de La vita agra), oppure ben consapevoli della propria alterità anti-borghese (tutto Moravia ma citerei La noia) e pure di una rivendicata e apparentemente fatua irrilevanza (Arbasino), comunque schierati per un’altra Italia (Pasolini) contro la violenza della fabbrica e del Capitale (Volponi e il Parise de Il padrone), e alcuni di loro assai desiderosi di anticipare l’auspicata rivoluzione sociale, sovvertendo le regole della tradizione (Balestrini, Porta, Cordelli), negando al loro pubblico peraltro benestante persino la comprensione del testo e l’esistenza stessa di un plot…

Nota biografica. Giuliano Gramigna (Bologna, 31 maggio 1920 – Milano, 15 aprile 2006) è stato un critico letterario, scrittore e poeta italiano. Dopo la laurea in giurisprudenza, esordisce come giornalista per un periodico milanese, finché, nel 1952, inizia a collaborare alle pagine culturali del Corriere della Sera. Ha scritto romanzi, raccolte di versi, saggi e ha tradotto dal francese opere di Alain-Fournier e Charles-Louis Philippe.
Marcel ritrovato, pubblicato con Rizzoli nel 1969, è il suo terzo romanzo e ha ricevuto, nello stesso anno, il Premio Selezione Campiello e il Premio Campione d’Italia (dalla cartella stampa di Il ramo e la foglia).

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