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Allonsanfàn
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American Fiction: al bianco piace il nero “in da ghetto”

Il professor Thelonious Ellison, detto Monk – e se non capite perché rischiate già di perdervi qualcosa, senza contare che poi pure Ellison non è un cognome scelto a caso… – il professor Thelonious Ellison, detto Monk, dicevo, è un cinquantenne scrittore e docente afroamericano di relativo insuccesso.

La sua carriera è in stallo anche perché non si riconosce né punto né poco nella letteratura black in voga in questi tempi politicamente corretti – è tutta roba amata soprattutto dai bianchi, sostiene Monk, i quali sono golosi di storie piene di cliché nate “in da ghetto” e scritte con il linguaggio popolare e sboccato dell’hip hop da neri che dicono fuck e magari hanno un anfibio di poliziotto che gli preme sul collo…

Insomma: troppo libero pensatore per il suo college di Los Angeles, Monk finisce per scazzare con le autorità della scuola perché, oltre che snobbare la famigerata woke culture, cerca di insegnare la complessità dell’arte e della vita ai suoi studenti.

Messo in sabbatico, quasi irriso dal successo toccato alla giovane e avvenente scrittrice black Sintara Golden che, benché cresciuta nei quartieri alti, possiede l’eloquio di un nigga di strada, Monk torna nella dignitosa Boston, dov’è cresciuto, e dove si confronta con la madre e il resto della sua famiglia di netta estrazione borghese.

Comunque. Durante rabbiose notti insonni, scrive per scherzo un romanzo-parodia in stile zio Tom contemporaneo, fingendo che si tratti del memoir di un detenuto on the run, e lo manda al suo agente. Manco a dirlo: gli si aprono tutte le porte, tra assegni d’anticipo a sei zeri e l’opzione per farne un film a Hollywood.

Ecco: American Fiction è sì questo film brillantemente intelligente e satirico ma, se desiderate, è pure un ben pesato dramedy con tutte le parti – pure quelle sentimentali – scritte al posto giusto.

Monk, idiosincratico e nevrotico intellettuale simile a un personaggio (ma nero) del vecchio Woody Allen, ha infatti a che fare con una situazione famigliare da resa dei conti – gli muore d’improvviso una sorella, deve ricoverare a malincuore la madre con l’Alzheimer in una clinica di lusso (pagata con i soldi del suo romanzo fake), si trova a litigare con un fratello queer che gli porta tra i piedi un po’ di stereotipata libertà, e poi non riesce a spiegare alla fidanzata avvocato, la bella e simpatica Coraline, i suoi improvvisi furori.

Ma i momenti in cui questo povero Monk, che per i bianchi non è black enough, si trova a dover impersonare il suo scrittore fantasma – si fa chiamare Stagg R. Leigh (gioco di parole con la canzone Stagger Lee) – valgono da soli il prezzo del biglietto e l’applauso convinto al protagonista, il sempre più incazzoso e sconfortato Jeffrey Wright.

Girato da Cord Jefferson in tre settimane, con un budget ridicolo, American Fiction riprende e rielabora attualizzandolo un bel romanzo di Percival Everett (Erasure) e si è infilato deciso tra i titoli più visti in streaming e nella gara per l’Oscar. Poiché l’Oscar è un premio conformista e i giurati hanno la coscienza sempre sporca, American Fiction si è portato via una statuetta anche se minore (miglior sceneggiatura non originale).

  • American Fiction è disponibile su Prime
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