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In arte Rap: una mostra e un libro di Chiara Rapaccini sulla sua vita con Belzebù

Lenzuolo, sostantivo maschile con doppio plurale: “lenzuola” per la coppia che veste il letto, “lenzuoli” per indicare più capi singoli presi uno per uno. Singoli lenzuoli bianchi come quelli che avvolgono i fantasmi. Come quelli esposti fino al 2 aprile alla Casa del Cinema di Roma nella mostra Rap e Belzebù, lenzuoli dipinti realizzati da Chiara Rapaccini, in arte Rap, pittrice, illustratrice, scrittrice, compagna di vita per trentacinque anni del regista Mario Monicelli.

Chiara e un “lenzuolo” (foto Andrea Vierucci)

I “fantasmi” incorporati in questi lenzuoli – per la prima volta in Italia dopo essersi aggirati nelle mostre di mezzo mondo – sono approdati qui, nel luogo dove sono state eseguite nel 2010 le laicissime esequie del regista morto suicida a 95 anni (comunista dichiarato per tutta la vita): sono quelli degli attori sceneggiatori registi del grande cinema della commedia all’italiana, da Vittorio Gassman a Fellini, dalla Magnani a Mastroianni, da Totò a Risi, ripresi in foto d’archivio fortunosamente salvate dal cassonetto dei rifiuti dalla stessa Rap. Che poi ha stampato quelle foto sui teli di biancheria trovati nella soffitta di casa o acquistati nei mercatini, e su questi ha lavorato in vari modi, a pennello e a matita, aggiungendo ricami e fumetti, nuvolette di parole per parlarci, con questi fantasmi, persone che lei ha conosciuto nella sua “prima vita”, quando hippy ventenne, femminista barricadera, ha iniziato a vivere col regista più vecchio di lei di quarant’anni e lui la indicava agli amici ospiti a cena come “l’artista” per quel suo ritirarsi in disparte a disegnare sul tavolinetto come una bambina che giocava da sola in mezzo ai grandi.

Intanto però la piccola assorbiva molto da quei “vecchi”, l’ironia dissacrante, quel modo leggero di essere colti, quella profondità di pensiero, quel fregarsene delle convenzioni, le battute: “L’hai raccattata all’asilo infantile?”, aveva chiesto uno di loro al regista indicando la giovanissima compagna.

Monicelli bambino (foto Andrea Vierucci)

In quella casa la ragazzina abituata all’armoniosa bellezza di Firenze – aveva conosciuto Monicelli sul set di Amici miei obbligata dal contratto di comparsa col teatro Comunale a partecipare ai film che si giravano in città – arrivata nella disincantata “grande bellezza” della Roma del cinema, nutriva i suoi talenti, la pittura, la scrittura. Ammaliata dal regista sessantenne che le aveva detto fin dalla prima volta sul set “tu non sarai mai un’attrice” (né lei ha mai voluto “fare cinema” anche se avrebbe potuto entrarci dalla porta principale), sollecitata da lui a scoprire il potere della letteratura: “i Russi li devi leggere tutti, comincia con Gogol’…”, le suggeriva quel suo personale Belzebù che la seduceva come il demone della conoscenza aveva sedotto Eva, e la divertiva con gli epitaffi che avrebbe voluto sulla propria tomba (“Non ebbe mai un cellulare”, “Non andò mai alla Maldive”), e le faceva compagnia anche quando non c’era, con i foglietti che le lasciava sul frigorifero, in bagno o sulla tazzina del caffè, con i versi di Saba, Caproni, Montale. Quel Belzebù che avrebbe amato per tutta la vita, talvolta odiandolo.

Chiara (foto Fabrizio Troccoli-The Globe and Mail)

Su uno dei lenzuoli in mostra si vede Mario Monicelli che spinge una carrozzina (storicamente è quella, piena di mercanzia varia, che Mariangela Melato si porta dietro camminando lungo l’autostrada nel film Caro Michele): ora qui nella carrozzina c’è una bambina piccola, nera, “sono io, ci ho messo il mio io edipico”, spiega Rap che non ha remore a definire “chiaramente edipico” il suo amore per il regista, coetaneo di suo padre.
 Questa immagine è anche la copertina del libro Mio amato Belzebù – L’amara dolce vita con Monicelli e compagnia (Giunti 2023), che non è (solo) “la historia de un amor como no hay otro igual”- mi viene proprio da dirlo con le parole della canzone -, e non è neanche un’operazione-nostalgia del cinema che fu. È un memoir, un appassionato romanzo di formazione scritto da sé medesima, sulla propria voglia di indipendenza: viene da pensare che la ragazza e il suo Belzebù fossero fatti della stessa stoffa.

Se non dovessi tornare
 sappiate / che non sono mai
 / partito.
 / Il mio viaggiare
 / è stato tutto un restare
 qua, / dove non fui mai.

È una delle poesie, prelibati bocconcini di cibo per la mente, che Monicelli lasciava scritte su foglietti a quadretti sparsi per la casa perché Chiara, o Zib come lui la chiamava, le trovasse, e intercettasse il sottotesto indirizzato a lei.

Non conoscevo questa poesia di Giorgio Caproni. Mario Monicelli e Rap l’hanno fatta arrivare anche a me.

Il libro

Info Rap e Belzebù (fino al 2 aprile)
 Casa del Cinema,
 e-mail: casadelcinema@romacinemafest.org 
- Largo Marcello Mastroianni 1, Roma – 
Orari: dal lunedì al sabato 16-20, 
domenica 10-20. 
Ingresso gratuito

Nella foto di apertura, Mario e Chiara in una foto di famiglia

 

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