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Helen Czerski. Raccontare La macchina blu che muove la Terra

Tenere insieme appassionamente, per 340 pagine di testo (un’altra trentina sono per la bibliografia finale) la vastità degli oceani, la danza del pianeta intorno al Sole, i movimenti mastodontici dei ghiacciai polari, l’incessante rotazione terrestre che, noncurante, trascina con sé i trionfi e disastri delle nostre civiltà (la costruzione delle Piramidi così come il sangue delle Guerre mondiali), raccontare le correnti marine e le onde come fossero pistoni di un gigantesco motore che produce energia senza mai fermarsi, e rivelare molto altro ancora, dalle tartarughe che «piangono» per eliminare il sale marino alle tempeste che ingoiano navi e marinai, dai fondali degli abissi («è come cadere tra le stelle») alle bancarelle di calamari, spigole e gamberi nell’estuario londinese del Tamigi, è la formidabile impresa in cui si è cimentata l’inglese Helen Czerski nel libro La macchina blu (Bollati Boringhieri).

Fisica e oceanologa allo University College di Londra, ha dedicato i suoi studi – e i suoi invidiabili vagabondaggi – all’immenso ruolo che il mare ha sul nostro pianeta e sul clima, su di noi e le nostre vite, più o meno felici, e in ogni pagina trasmette curiosità, entusiasmo, serietà e ironia mixati insieme, e stupore nello scoprire quanto è cruciale, e poco conosciuta da noi lettori «ignoranti», l’influenza di questa immensa massa liquida che ci circonda e ci sostiene.

«Com’era possibile che nessuno mi avesse mai detto niente di tutto questo? Come avevo potuto attraversare tre cicli di studi di fisica e centinaia di libri, articoli e conferenze senza che nessuno avesse mai nemmeno menzionato l’oceano?» si chiede Czerski, con l’indignazione di chi rischiava di perdersi uno strepitoso altrove. «Era di gran lunga la più grande storia scientifica che avessi mai sentito».

Un saggio di scienza, quindi, innegabilmente. Ma anche di geografia, storia, biologia, poetico e sorprendente nelle sue immagini e riflessioni. Qualche esempio? Quanti ne volete. Per descrivere l’effetto Coriolis (un’apparente deviazione lungo una traiettoria, in base a leggi fisiche) l’autrice parte dalla cascata di proiettili dell’esercito del Kaiser che, all’alba del 23 marzo 1918, piovvero per settimane su Parigi – deviati appunto dalla forza di Coriolis -, sparati da tre dei più grandi cannoni del mondo, costringendo la popolazione ad abbandonare in preda allo sconforto la ville lumière. «Mentre i suoi minuscoli abitanti umani si agitavano sulla sua superficie, infliggendosi da soli morte e distruzione, la Terra non smetteva mai di girare».

Anche nel secondo conflitto mondiale, del resto, il mare giocò la sua parte: le forze americane, nell’estate 1945, potevano sbarcare nel nord della Francia solo in una finestra temporale stretta, ben precisa, in cui la Luna e le maree si sarebbe «alleate» per dare origine a onde  tali (il cosiddetto «mare lungo») da non distruggere i mezzi di sbarco: una danza ben calibrata, che gli ocenaografi del tempo dovevano prevedere senza errori per poter rovesciare le sorti della guerra. Il generale Eisenhower decise per il 6 giugno, il famoso D-Day. I soldati ebbero comunque un discreto mal di mare, ma l’invasione segnò la fine della guerra.

E poi. Quando spiega la forza della gravità dentro il mare, ecco visualizzarsi lo scheletro struggente del Titanic: «Una nave che affonda è forse il singolo oggetto più grande e pesante che possa percorrere tutta la distanza tra la superficie dell’oceano e le profondità. L’acqua dell’oceano però difficilmente le permetterà di cadere seguendo una linea dritta». E fu grazie a questo dettaglio che Robert Ballard riuscì a ritrovarne il relitto, dopo oltre 70 anni dal suo inabissamento sotto le onde dell’Atlantico, scoprendone resti e detriti su un’area lunga circa cinque chilometri e larga otto.

Helen Czerski

Storie fantastiche, raccontate in modo lieve, via una l’altra. Ci vuole talento, e voglia di divertirsi, lasciando che davanti ai nostri occhi il cuore liquido del pianeta dispieghi tutta la sua forza, che ancora oggi conosciamo così poco, ma infine così tanto rispetto a quando le mappe antiche riportavano draghi, serpenti marini e mostri assortiti che, come misirizzi immaginari, spuntavano dalle acque.

Abbiamo però dimenticato, facendoci terrestri e «saputelli», la placenta oceanica nella quale siamo nati, visto che la vita iniziò probabilmente in una pozza di acqua salata, e adesso, cittadini della terraferma, l’oceano lo navighiamo, lo esploriamo, lo sfruttiamo e abusiamo delle sue risorse, ma ne sottovalutiamo l’impatto sul nostro futuro di specie. La «macchina blu» che domina il mondo e, come scrive Czerski, «allestisce la scena per tutto il resto», è sì gigantesca ma i suoi meccanismi sono fini, e noi siamo (purtroppo) in grado di perturbarli. Ma non ce lo possiamo permettere.

Senza nessun moralismo, ma con estrema pragmaticità  – riflette questa biologa e scrittrice appassionata – dobbiamo rimodulare il nostro rapporto con l’oceano, conoscerne il motore complesso e delicato e assumercene la responsabilità. E smettere di pensare di poter guidare il suo motore blu come fosse un’auto. Senza sapere in che direzione andare (lo dobbiamo capire tutti insieme, paesi occidentali che maneggiano la tecnologia scientifica e le comunità locali delle regioni oceaniche, da sempre escluse dalla gestione dell’oceano) finiremo inevitabilmente a sbattere da qualche parte. L’oceano se ne infischierà, continuando il suo gioco di onde e respiri sottomarini. Noi ci gochiamo tutto.

  • Alice Caroli è una giornalista torinese

Credit: Helen Czerski” by TheTherapist is licensed under CC BY-NC 2.0 e Thomas Fuhrmann

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